domenica 21 dicembre 2014

Dirtmusic @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


«Tante persone, tante lingue; una musica, una strada», spiega Hugo Race dal palco del Raindogs, e migliori parole non avrebbe potuto trovare il songwriter australiano per descrivere l'idea alla base del progetto Dirtmusic. Una ‘sporca’, cosmopolita entità musicale quest'ultima, fautrice d'una nuova, modernista concezione di world music, figlia d'un approccio democratico e partecipato, in un dialogo aperto tra elettroniche trame occidentali e l'arcaica fascinazione dei ritmi e delle melodie dell'Africa subsahariana. Una strada sulla quale il nostro, in compagnia dell'amico Chris Eckman, si è, in passato, incamminato con destinazione finale Bamako, capitale di un Mali allora, come oggi, squassato da un'intestina guerra civile, dove, grazie all'incontro con un nutrito gruppo di musicisti locali, hanno visto la luce una serie di sorprendenti album, in un, riuscito, intento di creare una “musica globale”, in grado, grazie ad un universale linguaggio sonico, di travalicare ottundenti barriere mentali e fisiche. Musica quale unico mezzo per avvicinare ed unire culture e storie molto diverse tra loro quindi, come d'altronde ha scritto Samba Touré, uno dei musicisti coinvolti nel progetto, nelle liner notes di Troubles, «La musica è molto, molto importante. Oggi è praticamente tutto quello che abbiamo». Musica, quella a nome Dirtmusic, divenuta quindi ideale canale comunicativo attraverso il quale far conoscere al mondo il dolore e la frustrazione del popolo maliano, così come del continente africano tutto, in un rabbioso grido di dolore, a denti stretti, a denunciare le oppressioni perpetuate dalla cieca efferatezza dei fondamentalismi religiosi, ma anche portatrice di un'utopica speranza in un futuro di più radiosa pace. Un messaggio che Eckman e Race hanno deciso di portare sui palchi di mezza Europa, impegnandosi in una serrata serie di impegni live, tra i quali spiccava, è proprio il caso di dirlo, un'unica data italiana, in quel di Savona. Un'occasione tanto rara quanto imperdibile quindi per poter assistere, dal vivo, ad un incontro tra due mentalità, musicali e non, tanto diverse quanto altrettanto simili tra loro. Accompagnati per l'occasione dal fenomenale polistrumentista Baba Sissoko e dall'altrettanto versatile Moussa Coulibaly, Eckman e Race si sono così palesati sul palco del Raindogs per dispensare ad una nutrita platea, una ben studiata “panoramica” della produzione discografica a marchio Dirtmusic. Un quartetto capace non solo d'incantare i presenti con una performance d'ipnotica trascendenza, quanto di non far avvertire la ben che minima mancanza del folto organico di strumentisti presenti tra i solchi degli album in studio. Non solo Race ha saputo ovviare in parte al “problema” di ridimensionamento della line-up, attraverso una sapiente gestione dei loop, della quale hanno tratto particolare giovamento, ma non solo, i brani contenuti nel recente, sintetico Lion City, ma gli stessi Sissoko e Coulibaly si sono fatti carico, egregiamente, della “componente” africana, regalando momenti di pura astrazione mistica. Guidati dalle sei corde di Race e di Eckman, quest'ultimo quanto mai ineccepibile nel creare un continuo, elettrico flusso cosmico, pregno di distorsioni ed effetti, i quattro hanno dato vita ad un collettivo, cinematico profluvio di suoni, rumori e battiti, con il pubblico coinvolto, come rapito, in una sciamanica danza. Un'empatia quella instaurata tra palco e platea, ideale amplificazione di quella tra i quattro musicisti, più d'una volta lasciatisi andare a grida, tanto d'incitamento quanto d'approvazione per i rispettivi interventi strumentali, fino ad autentiche risate d'incontenibile gioia, testimonianza di quanto essi, per primi, si stessero divertendo. Non vi sono frontman sul palco, ognuno riveste un ruolo fondamentale, ed ognuno ha a disposizione il medesimo spazio strumentale e vocale. Proprio l'alternarsi e l'intrecciarsi delle quattro voci è stato uno dei tratti peculiari dell'intero concerto, con le vocalità scure e magnetiche di Race ed Eckman a fondersi con l'enfatico salmodiare di quelle di Sissoko e Coulibaly, a rievocare l'opera dei leggendari cantori africani, i griots. Il tutto su di un substrato sonoro ricco e variegato, grazie anche al risuonare delle corde del ngoni di Sissoko, del quale è un autentico virtuoso, ideale contrappunto armonico alle due “canoniche” chitarre; ed al caleidoscopico percuotere tribale del balafon di Coulibaly. Un vibrante excursus sonoro che ha saputo toccare la quasi totalità degli album sin qui pubblicati, a cominciare da BKO, dal quale vengono riesumate una dilatata Smokin' Bowl ed una Black Gravity, dalla distorcente ruvidità, dove il balafon sopperisce egregiamente alla mancanza della spinta propulsiva dell'originaria sezione ritmica maliana. Da Troubles arrivano invece l'incedere ossessivo della title track, declamatorio african blues, affidato all'ugola di Eckman, nel quale aleggia lo spirito di Ali Farka Touré; un'algida Fitzcarraldo, quantomai sintomatica della, riuscita, unione tra antico e moderno, tra Africa ed Europa, ed una tesa e nervosa Take It On The Chin, con Sissoko a sedersi dietro un minimale drum set. Dall'ultimo parto artistico, Lion City, proviene invece la conclusiva, plumbea Clouds Are Cover, dove su di poliritmici incastri percussivi, tra il rimbombare sintetico dei loop e l'ancestrale battito dello djembèe di Coulibaly e del tamani di Sissoko, si insinua l'evocativo talking di Race. Richiamati a gran voce, i quattro non si fanno pregare, e tornano sul palco per “riportare tutto a casa” con la desertica, ammaliante ballata Bring It Home, lungo quella, succitata, sabbiosa strada grazie alla quale l'Africa e il Mali non sono mai stati così vicini come questa sera.




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