sabato 28 marzo 2015

The Nels Cline Singers @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dopo averlo visto seviziare e martoriare la propria chitarra, in ogni modo umanamente (e non) possibile, tra le fila dei Wilco, l'arrivo di Nels Cline in quel di Savona era un evento al quale non si poteva mancare. Se infatti nella formazione guidata da Jeff Tweedy il cinquantanovenne chitarrista losangelino rappresenta, insieme al puro genio ritmico di Glenn Kotche, l'estrema ala avanguardista, è altresì nella propria “avventura” solista che le sue pulsioni sperimentali paiono non aver freno alcuno, come ben evidenziato da una nutrita serie di album, volti ad abbattere le opprimenti barriere stilistiche e di genere, alla ricerca di una utopica free form, linfa vitale anche del progetto a nome The Nels Cline Singers. Ed è proprio con quest'ultimo che il nostro si presenta sul palco del Raindogs, con una formazione, per giunta, a dir poco stellare. Ad accompagnarlo infatti vi è una sezione ritmica da cardiopalma, ovvero Trevor Dunn (Melvins, Fantomas e Mr. Bungle) al basso elettrico e contrabbasso, e Scott Amendola alla batteria ai quali si è aggregato lo stupefacente percussionista brasiliano Cyro Baptista (John Zorn, Trey Anastasio Band). Un quartetto che per coesione e poliedricità suona al pari di un collettivo dall'organico ben più ampio, grazie anche ad un approccio democratico e universalistico alla materia musicale dove non esistono leader, ed ogni singolo contributo strumentale ha eguale importanza all'interno dell'economia sonora generale. Una democraticità che si avverte fin da un primo impatto visivo, con la strumentazione dei quattro posta in linea, ad occupare nella sua totalità il palco, eliminando, in tal modo, lo scomodo ruolo di frontman, quasi a voler disconoscere una ragione sociale non del tutto veritiera già a priori, vista anche la mancanza di un vero e proprio cantante. Sono infatti gli strumenti a far sentire la propria viva e forte “voce” in un caleidoscopico turbinio di suoni, rumori e pattern ritmici, tra improvvise accensioni rockiste, sulfuree aperture free jazz, tribalismi afro rock e calienti ritmi latini. Una bulimica, inarrestabile emorragia sonora che fluisce inesauribile, in un continuo affastellarsi di inebrianti spunti strumentali, univocamente condotti verso una magistrale costruzione del climax, volta ad irretire gli astanti in una trascendente e vertiginosa digressione avanguardista. E' tuttavia il (free) jazz, nella sua più libera, per l'appunto, accezione, la materia prima che i quattro si “divertono” a plasmare a propria immagine e somiglianza, dando vita ad ispirati episodi quali Thurston County, dove la pulizia del fraseggio montgomeryiano, sulla sei corde, di Cline incontra le dronanti rifrazioni moderniste dei loop “gestiti” di Amendola, e il primitivo percuotere del nutrito armamentario percussivo ad uso esclusivo di Baptista. Quest'ultimo è a dir poco impressionante nella sua varietà poliritmica, districandosi tra i più disparati “oggetti”, siano esse canoniche percussioni che bizzarre e personali ideazioni (vedasi a tal proposito il palloncino sgonfiato vicino al microfono o una catena sbattuta con violenza su un povero, inerte timpano, ndr), senza tralasciare la “semplice” pulsione ritmica di un sostenuto handclapping. Trevor Dunn, dal canto suo, si conferma essere bassista di “un altro pianeta” sia quando le sue dita si muovono veloci sul proprio basso elettrico, sia quando, una volta imbracciato il contrabbasso, fa scorrere l'archetto sulle spesse corde di quest'ultimo. E poi ovviamente vi è Cline, uno spettacolo nello spettacolo, banale a dirlo ma è così. Un uomo per il quale la chitarra non è un mero, semplice strumento, ma bensì un'insostituibile appendice del proprio corpo. Ed è annichilente, a tratti, quando dà libero sfogo alle proprie voglie rumoriste, come al contempo capace di creare autentiche oasi di mistica fluttuazione armonica, quali la suite in cui vengono “accoppiate” Respira e Macroscopic, entrambe contenute nell'ultimo lavoro in studio Macroscope, o i lidi pacificati di una The Angel Of Angels dalla psichedelica rarefazione. E se l'ondivaga Forge, nel suo flemmatico, continuo divenire viene squassata nel finale da traumatizzanti esplosioni elettriche, un vero e proprio assalto all'arma bianca caratterizza invece Cause For Concern, valvola ultima di sfogo della furia iconoclasta dei quattro prima di abbandonare il palco, lasciando il pubblico, letteralmente, a bocca aperta. Il quartetto ricompare, tuttavia, poco dopo, con Cline che esordisce con un sornione “Surprise, we're back!”, prima di guidare i propri compagni in un'ultima, spasmodica esecuzione d'assieme sulle funamboliche note di Canales Cabeza, in quello che potrebbe essere, a tutti gli effetti, considerato uno dei migliori esempi del Cline-pensiero, dove pura improvvisazione e calibrato scrivere pentagrammatico vanno a braccetto, conducendoci in inesplorati territori musicali, attraverso un immaginifico sondare sonoro che avremmo voluto non finisse mai.



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