sabato 28 marzo 2015

The Decemberists @ Magazzini Generali - Milano

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)




«We know, we know, we belong to ya. We know you built your lives around us. And would we change? We had to change some. We know, we know we belong to ya. We know you threw your arms around us in the hopes we wouldn't change but we had to change some. You know, to belong to you... », si presenta così Colin Meloy sul palco dei Magazzini Generali, intonando, in solitario, le prime strofe di The Singer Addresses His Audience, traccia d'apertura dell'ultima fatica discografica dei “suoi” Decemberists. Una sorta di lettera aperta ai propri fan; un timido confessare la propria volontà di cambiare, musicalmente e non, pur essendo ben consci delle speranze e delle aspettative riposte in loro dai fan medesimi, ed al contempo quasi scusandosi, ma specificando che, in fondo, «we did it all for you». Un empatico legame quello tra il combo di Portland e l'audience italiana che non solo non sembra essere stato intaccato dai paventati “cambiamenti”, così come da una lontananza dai palchi nostrani durata la bellezza di otto anni, ma anzi, a giudicare dalla folla festante che ha invaso questa sera il club milanese, risulta essere più saldo che mai. D'altronde i nostri, fin dagli esordi, ci hanno abituato alle più folli digressioni soniche, complice anche l'eclettismo di una penna, quella meloyiana, capace di tratteggiare con uguale maestria piccoli acquerelli dalle seppiate tinte Americana e dalle agresti tonalità del folk albionico, così come schizofrenici scarabocchi indie rock e sontuosi barocchismi progressive, in una personalissima cifra stilistica in costante mutamento, ben rappresentata, questa sera, da una set list capace di attingere da tutta la loro, ormai copiosa, discografia. Se la succitata The Singer Addresses His Audience, nel suo incontenibile crescendo strumentale, una volta che sul palco fanno la loro comparsa anche i “compagni d'armi” del barbuto Meloy, è stato incipit pressoché perfetto per catturare l'attenzione della platea, la toccata e fuga nella Athens dei Rem con una spigliata Calamity Song e la giga “riveduta e corretta” d'una irresistibile Rox In The Box, la conquistano definitivamente. E se Colin Meloy, anacronisticamente abbigliato come un personaggio di un libro di Edgar Allan Poe, si dimostra improbabile quanto al contempo carismatico frontman, privo di sbavature è l'apporto strumentale datogli dal resto della band, sia che si tratti del tumultuoso rollio ritmico della batteria di John Moen e del basso/contrabbasso di Nat Query, quanto del pigiare sui tasti dell'organo e della fisarmonica di Jenny Conlee e del versatile picking sulle corde, elettriche ed acustiche, di Chris Funk, senza tuttavia dimenticare il sostegno vocale delle due brave coriste. Una coralità d'esecuzione fondamentale nel ricreare, anche in concerto, le spesso intricate partiture decemberiste, come nella suggestiva triade A Bower Scene, Won't Want For Love e The Rake's Song, estrapolate dall'ambiziosa “opera rock” The Hazards Of Love, in una ipnotica spirale tra magniloquenza prog, riverberi spettrali e l'esasperata, acida lentezza di un rifferama sabbathiano, con Meloy a dirigere (sulle note della medesima The Rake's Song) il pubblico, dividendolo per sezioni, in uno strampalato battimani collettivo, per poi sorridere, divertito, nel constatare come di fatto abbiano applaudito ad una storia sanguinaria e crudele (ovvero quella, narrata nella canzone medesima, di un libertino che si macchia dell'assassinio dei suoi tre figli, ndr). I testi criptici e spesso cruenti sono d'altronde uno dei “marchi di fabbrica” dell'occhialuto songwriter, e del suo raccontare dickensiano, dai grotteschi tratti gotici, dal quando prendono vita atemporali personaggi contorti e deviati. Scrittura che da un'enigmatica astrusità narrativa riesce tuttavia a passare con disinvoltura ad un'adamantina purezza melodica elettroacustica, come testimoniato dalla contagiosa frenesia remmiana di Make You Better, dalla stranita mestizia di Better Not Wake The Baby e da un piccolo gioiello di soavità folk quale The Wrong Year, tutte provenienti dal recente What A Terribile World, What A Beautiful World, per poi raggiungere il proprio apice nella splendida riproposizione di Down By The Water, una delle, molte, perle scaturite dai solchi tradizionalisti di The King Is Dead. Una polverosa patina Americana che avvolge anche la baldanza antimilitarista di 16 Military Wives prima di far ritorno a più ardimentose trame strumentali con il sussultare armonico e gli umorali saliscendi di una dilatata suite comprendente i tre “episodi” di The Crane Wife, per poi concludere il set con l'ascensionale ballata A Beginning Song. Invocati a più riprese, i nostri tornano tuttavia sul palco per deliziarci, un'ultima volta, con l'incanto folk di una June Hymn dalla dylaniana fragilità acustica, e la rissosa storia di vendette tra marinai dell'ubriaco sea chanty The Mariner's Revenge Song, ultimo, ilare siparietto comico in cui uno statuario Chris Funk si improvvisa addirittura modello, aizzando, con il suo sfilare, il pubblico ad urlare “come una balena”, ovvero come il maestoso cetaceo che inghiottirà, infine, l'immaginario galeone decemberista, in un'apoteosi che vedrà tutti i Magazzini Generali sperticarsi in urla ed applausi, ampiamente meritati, per i cinque di Portland. Che altro aggiungere? Beh, per dirla alla decemberista...what A Beautiful Concert!



SET LIST

The Singer Addresses His Audience 
Calamity Song 
Rox In The Box 
Here I Dreamt I Was an Architect
Better Not Wake The Baby 
The Wrong Year 
The Gymnast, High Above Ground
A Bower Scene
Won’t Want for Love (Margaret in the Taiga) 
The Rake’s Song 
Down By The Water
Make You Better
16 Military Wives
The Crane Wife 1, 2 &3
A Beginning Song 

ENCORE 

June Hymn
The Mariner's Revenge Song



                             

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