giovedì 6 novembre 2014

Da Joplin, Missouri, “con ogni mezzo necessario”. Intervista a Ben Miller

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dopo l'interessante esordio, “Heavy Load”, ed un intenso tour che li ha portati anche in Europa, di supporto agli ZZ Top, la Ben Miller Band ha da poco dato alle stampe, il suo secondo album ”Anyway, Shape Or Form”, registrato agli Sputnik Studios di Nashville e prodotto da Vance Powell. Folk degli Appalachi, blues del Delta e country nashvilliano tornano a convivere in un'irriverente amalgama battezzata dai nostri con la denominazione doc di Ozark Stomp. Abbiamo chiesto a Ben Miller di svelarci i segreti di questo folle trio.


Partiamo dal principio, come si è formata la Ben Miller Band?

Abbiamo iniziato a suonare insieme ad una serata open mic organizzata nella zona in cui viviamo, e dopo aver continuato a suonare insieme per un pò di tempo è venuto quasi naturale farlo durante i weekend nei vari club e locali.


Avete battezzato la vostra "miscela" musicale, in onore della vostra regione geografica, Ozark Stomp. Potete descriverci quali sono gli "ingredienti" che avete mescolato tra loro per creare questa vostra personale "ricetta"?

Non direi che gli ingredienti sono importanti, perlomeno non quanto una filosofia “innovativa”. E' presente una sorta di individualismo irriverente, che rappresenta una delle caratteristiche della regione in cui viviamo, nel nostro modo di intendere e fare musica. Così come probabilmente vi sono anche molte influenze delle sonorità delle Ozark Mountains in quello che suoniamo, ma questo non in modo consapevole. La nostra musica è paragonabile ad un cibo che ha assorbito determinati sapori dal terreno nel quale è stato coltivato.


“Anyway, Shape Or Form”, il vostro secondo album, rappresenta, fin dal titolo, una chiara dichiarazione d'intenti; il vostro desiderio di creare musica con ogni mezzo necessario. Questa ‘filosofia’ si riflette anche nei vostri particolari, nonchè autocostruiti, strumenti, estrapolati dalla tradizione musicale bianca e nera, ma modernizzati ed elettrificati. Ci potete spiegare come li avete modificati? Quanto sono importanti questi strumenti per l'economia sonora del vostro trio?

Amiamo provare e sperimentare cose nuove, spesso funzionano, altre volte no. Provo a spiegarlo usando una metafora sull'evoluzione naturale. Gli animali hanno, da sempre, sviluppato strane ed idiosincratiche caratteristiche e comportamenti, con il passare delle generazioni, attraverso la mutazione. Se un animale può sopravvivere meglio con il collo più lungo, quel tratto somatico rimarrà nel suo dna e verrà tramandato alla propria prole. Allo stesso modo, musicalmente, abbiamo subito un'evoluzione, fino a diventare quello che siamo oggi. Sperimentiamo nuovi strumenti, canzoni e stili, e se il tutto suona nel modo giusto per noi, e per i nostri amici, allora sopravvive anche nei successivi concerti. Non avevamo un'idea originaria del modo in cui avremmo dovuto suonare, il tutto si è, per l'appunto, evoluto in modo graduale, lungo la strada percorsa insieme, grazie anche alla nostra sensibilità musicale e all'ambiente circostante.


Nel vostro debutto discografico, “Heavy Load”, era contenuto un personale arrangiamento dello spiritual nero, Get Right Church, mentre oggi in “Anyway, Shape Or Form”, è presente una notevole versione della ballata folk, d'ascendenza bianca, The Cuckoo; come scegliete solitamente i brani da rivisitare, alla luce anche della molteplicità di stili che esplorate? In che modo approcciate la tradizione musicale del vostro paese, bianca e nera?

Non penso alla "razza" del musicista quando ascolto vecchie canzoni o brani tradizionali. Certamente la musica è stata influenzata dalla storia e dal patrimonio umano delle varie persone, e dal contesto storico nelle quali esse hanno vissuto. Ma, davvero, noi non pensiamo alle canzoni, le sentiamo, le viviamo. Ho notato come, spesso, le persone non appena ascoltano qualcosa provano, immediatamente, a razionalizzare ciò che stanno sentendo. Se apprezzano la vecchia musica country, per esempio, potrebbero dire; «Mi piacciono i valori che essa rappresenta e la sua autenticità», oppure se a loro piace la musica hip hop; «Apprezzo la critica sociale presente nei testi». Non credo che a loro piaccia, realmente, la musica per queste ragioni, la sentono invece nel loro cuore, nel profondo. Sarebbe come chiedere perché uno scherzo è divertente oppure perché il cibo è delizioso, siamo sicuramente in grado di dare risposte diverse a queste domande, ma uno scherzo è divertente perché è divertente e il cibo ha un buon sapore perché, semplicemente, ha un buon sapore. Non vi è assolutamente bisogno di razionalizzare ogni cosa. Bene, detto questo, per quanto riguarda la scelta dei brani da rivisitare, faccio solo quello che ritengo sia giusto per me.


Parlaci, invece, di come nascono le tue canzoni.

In primo luogo, una canzone ha sempre il proprio inizio da qualche parte. Non sai mai esattamente dove nascerà, a volte da una melodia, o da uno spunto strumentale, oppure da un'idea che mi si fissa in testa. Cerco così di trovare un modo di portare questa idea ad uno nuovo stadio, più compiuto, aggiungendo altri elementi, per poi "portarla" fuori dalla mia mente e realizzarla fisicamente. Non sono tuttavia mai del tutto sicuro di quando una canzone è veramente completa, infatti cambio spesso i testi a brani che ormai eseguo da anni. Immagino che non si arrivi mai ad una fine vera e propria, almeno fino a quando uno non si arrende e lascia il tutto com'è.


Per “Anyway, Shape Or Form” siete stati affiancati, in studio, da Vance Powell, dietro al bancone di regia, in passato, per Jack White e Wanda Jackson, come è stato lavorare con lui? Che tipo di cambiamenti vi sono stati, rispetto alle sessioni di registrazione di Heavy Load?

Vance è un nostro caro amico, veniamo tutti da Joplin, nel Missouri, ed è stato rassicurante lavorare con qualcuno che ha le nostre stesse radici. Le sessioni di registrazione, questa volta, sono state una sorta d'esperimento, suonando le canzoni dal vivo, direttamente in studio. E' stato un modo per accelerare la crescita di alcuni brani nati, prevalentemente, durante i lunghi periodi passati sulla strada. Abbiamo trascorso parecchio tempo cercando di trovare le giuste sonorità, lavorando intensamente sulle canzoni, fino al punto in cui abbiamo, finalmente, sentito che avevano trovato la loro forma definitiva.


King Kong, l'ultima canzone contenuta in “Anyway, Shape Or Form”, è una splendida ballata folk per sola voce e chitarra acustica. Come mai avete scelto di chiudere l'album con questo brano?

King Kong è stata l'ultima canzone che ho scritto, quasi una sorta di "ripensamento". Durante le sessioni di registrazione ho chiesto a Vance se poteva settarmi un singolo microfono in modo da poter registrare mentre Doug e Scott erano in pausa dal lavoro su di un'altra canzone. Abbiamo preparato il microfono e registrato il brano un paio di volte, ma non eravamo del tutto sicuri se avrebbe fatto parte dell'album oppure no. Nel mentre stavamo stilando l'ordine dei brani del disco abbiamo cercato di inserire King Kong in diversi punti, ma non suonava mai in modo organico con il resto, probabilmente a causa della sua scarsa strumentazione. Posizionandola tuttavia in chiusura dell'album sembra quasi un extra, un qualcosa in più per coloro che ascolteranno il disco.


Quali sono invece le canzoni dell'album che meglio si prestano per essere riproposte dal vivo?

Amiamo suonare le canzoni di quest'album in concerto, davvero. Come ho già accennato abbiamo lavorato in studio suonando le canzoni dal vivo, ed è un piacere poterle portare, su di un palco, ai nostri fan. Le mie preferite in questo momento, ma cambiano di giorno in giorno, sono: Life On Wheels, 23 Skidoo, Ghosts e Hurry Up And Wait.


Avete suonato in alcuni importanti festival negli Stati Uniti ed in Europa, come l'Americana Music, il Floydfest e il prestigioso Montreux Jazz Festival. Il vostro live show cambia a seconda che suoniate in un festival oppure che si tratti di un vostro "canonico" concerto?

Si, certamente, cambia a seconda di quanto tempo abbiamo a disposizione. Quando suoniamo per soli 45 minuti dobbiamo cercare di attirare l'attenzione del pubblico piuttosto velocemente. Solitamente non ho idea di quali canzoni eseguiremo quando saliamo su di un palco, penso sia molto importante riuscire a leggere lo stato d'animo del pubblico e in base a questo scegliere i brani. Ovviamente con un tempo limitato abbiamo, invece, a priori un'idea di quello che faremo sentire al pubblico presente, ma siamo in grado di cambiare il tutto a seconda dell'umore, nostro e del pubblico stesso.


Quali sono le lezioni che avete imparato nei lunghi periodi trascorsi in tour?

Beh, abbiamo sicuramente imparato a viaggiare leggeri, cercando di capire quali sono le cose essenziali da portare con noi e quali invece da lasciare a casa.


Una riscoperta e modernizzazione della "musica delle radici", la vostra, che vi accomuna a gruppi come la Big Damn Band del ‘Reverendo’ Peyton e agli Hillstomp, giusto per nominare due nomi a voi, musicalmente, affini. Vi sentite parte attiva di questa fervente scena?

In realtà non mi sento parte di una scena specifica, anche se rispettiamo alcune delle filosofie di altre band, ma penso che ognuna si sia sviluppata attraverso un proprio isolamento. Sono comunque felice di vedere come anche altri gruppi hanno le nostre medesime passioni, e solitamente quando le ascolto traggo sempre ispirazione dalle differenze che ci sono tra di noi, questo, inoltre, ci dà la possibilità di "rubare" l'uno dall'altro.


La scorsa estate avete anche debuttato, dal vivo, nel nostro Paese, come opening act per gli ZZ Top. Come vi ha accolto il pubblico italiano?

Sono rimasto davvero sorpreso dall'entusiasmo del pubblico italiano. Avrei dovuto sapere che gli italiani sono noti per la loro passionalità, ma sono stato preso davvero alla sprovvista dal calore dimostrato nei nostri confronti. Dopo lo spettacolo siamo andati a firmare autografi tra il pubblico, e la gente era davvero entusiasta. A volte mi devo fermare per rendermi conto di quanto sono fortunato ad avere l'opportunità di viaggiare e di essere apprezzato da estranei per quello, che con i miei amici, suoniamo.


Cosa c'è nel futuro della Ben Miller Band? Avremo la possibilità di rivedervi, di nuovo, in Italia?

Siamo costantemente sulla strada, di città in città. Suoniamo, regolarmente, quasi 200 concerti all'anno. Probabilmente, nel mentre i vostri lettori stanno leggendo questa intervista noi saremo in viaggio per andare a suonare da qualche parte. Per quanto riguardo il tornare in Italia, non appena ci sarà possibile di attraversare nuovamente l'Oceano, torneremo anche dalle vostre parti.


Ultima domanda, probabilmente scontata, quali sono gli album che vi hanno influenzato come musicisti e/o persone?

(per nulla banale, in realtà ho davvero apprezzato le tue domande, sono ben formulate ed attinenti alla nostra musica, grazie!)

Per quanto mi riguarda, la prima influenza musicale sono stati i dischi dei miei genitori. Ricordo di aver ascoltato e riascoltato parecchio “The Times They Are A-Changin” di Bob Dylan. Era uno degli lp di mia madre, insieme a quelli dei Beatles, Peter, Paul and Mary, Beach Boys e Creedence Clearwater Revival. Mio padre invece ascoltava album di Flatt & Scruggs, Carter Family, Hank Williams e Johnny Cash. Sono stato davvero fortunato ad aver avuto questi dischi in giro per casa, fin da piccolo.



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