sabato 29 novembre 2014

Bonnie "Prince" Billy - Singer's Grave - A Sea Of Tongues

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Eccentrico e, a volte, sin troppo esuberante, con una labirintica produzione discografica caratterizzata dal frenetico avvicendarsi delle più diverse ragioni sociali, di fronte alla quale anche il più fervente sostenitore è rimasto a volte, per usare un eufemismo, spiazzato, Will Oldham ha continuato imperterrito a perpetuare, fin dagli esordi, una propria, intransigente concezione musicale, tramutandosi, sempre più, nella classica "mosca bianca", in un mondo discografico oggi più omologato che mai. Un modus operandi, quello dell'istrionico songwriter di Louisville, Kentucky, capace tuttavia di produrre, ogni qual volta egli pone piede in uno studio di registrazione, album dalla visionaria bellezza, in grado di irretire l'ascoltare, in una sorta di rapimento mistico, trasportandolo in un bislacco mondo parallelo, dove i vetusti stilemi folk, appresi da bambino nella propria città natia, vengono riveduti e corretti attraverso una personale, stranita visione della medesima materia sonora. Frutto di questo approccio "senza regole" è anche l'odierno Singer's Grave - A Sea Of Tongues, pubblicato, quasi a sorpresa, a distanza di pochi mesi da un'opera omonima, divenuta in breve tempo il Sacro Graal della discografia oldhmaniana, vista anche l'assenza di una vera e propria distribuzione, ed una conseguente reperibilità pari, per l'appunto, alla tanto agognata reliquia cristiana. Una scelta, questa, anch'essa controcorrente che aveva fatto mangiare le mani a più di un suo fedele "suddito", specie alla luce della qualità del lavoro stesso, senza dubbio tra le punte di eccellenza dell'epopea discografica del nostro. Ed oggi, quasi a volersi far perdonare, il Principe dà alle stampe un nuovo lavoro, della medesima, se non maggiore, caratura; un nuovo ossequio alla tradizione folk, perpetrato attraverso la consueta, trasognata forza poetica. In realtà l'aggettivo "nuovo" è forse quello meno calzante per definire l'opera in questione, visto che ben cinque brani comparivano già tra i solchi di Wolfroy Goes To Town, vecchia pubblicazione a marchio principesco uscita nel "lontano" 2011. Certo il nostro ci aveva abituato, ricorrendo proprio al suo pseudonimo più famoso, a rileggere e riarrangiare il proprio materiale passato, vedasi a tal proposito Bonnie Prince Billy Sings Greatest Palace Music, meraviglioso esercizio di “rivangazione”, in chiave country folk, del repertorio a nome Palace, nelle sue più diverse accezioni, così come l'E.P. Now Here's My Plane, dove oggetto di rivisitazione erano proprio alcuni "classici" del suo moniker regale; eppure, fin dal primo ascolto, il lavorio in fase di arrangiamento approntato per questi e i restanti brani, scritti per l'occasione, è la fulgida testimonianza di una mai prosciugatasi vena lirica, anzi a dir poco idilliaca nel suo stare in bilico tra trattenute vibrazioni acustiche e trascendenti increspature elettriche. Su cotanto flusso sonoro di disincantato fascino agreste, a spiccare, in tutto il suo magnetismo, è, come sempre d'altronde, il canto oldhamiano mai forse così capace di affascinare per pienezza timbrica e melanconica confessionalità, raggiungendo il proprio apice emozionale negli scambi vocalizzanti con le corde vocali, d'ascendenza gospel, delle McCrary Sisters e di Caroline Peyton, quest'ultima chiamata qui a sostituire la "dimissionaria" Angel Olsen, dietro al microfono in occasione proprio del precedente Wolfroy Goes To Town. E sono i brani di quest'ultimo a lasciare a bocca aperta per la trasformazione sonora ai quali sono stati sottoposti, con il velo di cupezza che originariamente li rivestiva sostituito da un nuovo, tenue manto melodico, dove si avverte tanto l'influsso della mano, e della mente, dello stesso titolare, quanto il contributo strumentale del fido Emmett Kelly, e di una sei corde ormai da tempo asservita all'operato sonoro del proprio "sovrano" musicale. Devono, pertanto, leggersi come composizioni "inedite" una There Will Be Spring pregna di languide sfumature country, con le fluttuanti ondulazioni melodiche della pedal steel di Paul Niehaus, già con Calexico e Lambchop tra gli altri, in primo piano, così come il quieto raccoglimento di una, quasi, sussurrata It's Time To Be Clear, passando per il saliscendi polveroso di Quail And Dumplings, con lo stridere delle corde del violino di Billy Contreras a contrappuntare l'empatico duetto vocale tra Oldham e la Peyton, fino ad una We Are Unhappy dallo scarno scheletro strumentale old time, costruito sul picking appalachiano del banjo di Richard Bailey, con le voci delle McCrary Sister ad aggiungere al tutto una chiesastica forza devozionale. Un continuo incrociarsi di voci che ritroviamo anche nello spartano country rock dell'opener Night Noises, o in una Whipped dove la voce del "Principe" arriva a raggiungere vette d'inusitata altitudine timbrica, quasi spezzandosi nel tentativo di cotanta scalata tonale. Di maggior dinamismo è invece So Far And Here We Are, dove il retroterra musicale a stelle e strisce del nostro incontra le nebbie psichedeliche dei Trembling Bells, tanto da sembrare una outtake di The Marble Downs, album condiviso proprio con il combo scozzese. Si smorzano tuttavia, nuovamente, i toni e si rallentano i tempi in New Black Rich (Tusks) e in Sailor’s Grave A Sea Of Sheep, poste in chiusura, la prima una lenta, straziante ballata elettrica, mentre la seconda un valzer dalla inarrivabile grazia acustica, ed ideale chiosa intimista, dall'evanescente bellezza. Collocandosi idealmente tra l'imprescindibile, succitato, Sings Greatest Palace Music, e le passeggiate bucoliche di Ease Down The Road; Singer's Grave - A Sea Of Tongues, nella sua paradisiaca grana melodica rootsy, rappresenta l'ennesima pietra miliare della saga "principesca".




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