domenica 10 agosto 2014

Steve Earle @ Mojotic Festival - Sestri Levante

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Tra i sempre più numerosi eventi musicali affollanti, come di consuetudine, l'estate nostrana spiccavano le tre date di un autentico “gigante” della canzone americana, Steve Earle, di certo non un assiduo frequentatore degli italici confini, dai quali mancava infatti da diverso tempo. Tre date in solitario che si preannunciavano non solo come eventi imperdibili, quanto necessari per potersi immergere, appieno, nel songwriting earliano nella sua primigenia, scarna e più pura manifestazione. Una chitarra acustica, un mandolino, qualche armonica e una voce oggi più che mai capace di arrivare a toccare gli spazi più reconditi dell'anima umana; è bastato questo al songwriter texano per stregare, letteralmente, una platea quasi ammutolita, con i racconti, trasposti in musica, di una vita, la sua, ma che potrebbe essere quella di ognuno di noi, irta di traversie, tonfi e risalite, a rivedere finalmente una luce apparsa troppe volte come lontana e irraggiungibile. Un cammino portato avanti sempre sulla parte buia della strada, con fierezza, seppur conscio dei propri errori, raccontando sé stesso e le brutture di un'America ben lungi dall'essere quella nazione dei sogni e delle speranze tanto decantata. Una Low Highway percorsa in lungo e in largo, macinando chilometri su di un nero tappeto d'asfalto, con lo scorrere veloce, al di fuori del finestrino, dei ruderi fatiscenti della società statunitense. Una Low Highway che titola anche la sua ultima fatica in studio, con la cui title track questa sera Earle apre il concerto, prendendoci idealmente per mano, per accompagnarci in un immaginifico cammino a ritroso, attraverso il proprio articolato percorso artistico ed umano. E se 21st Century Blues è anch'essa una cartolina, dalle tinte seppiate, del recente viaggio “autostradale”, una dolente My Old Friend The Blues ci riporta indietro non solo nello spazio, ma anche nel tempo, fino a Nashville, anno di grazia 1986, quando il nostro diede alle stampe il suo debutto, Guitar Town, dal quale ripesca anche un'intensa Someday, ancor intrisa di quella cieca speranza riposta nella fuga dall'aberrante vita di provincia. Ha già conquistato la platea, Earle, la quale non si fa certo pregare quando viene incitata a cantare insieme a lui una straripante I Ain't Ever Satisfied, tanto da fargli affermare, divertito: “Non c'è davvero bisogno di convincere gli italiani a cantare”. É quantomai ciarliero e affabile il nostro, occhiali ben piantati sul naso, giacchetto di pelle su t-shirt e jeans sdruciti e una lunga, incolta barba; una sorta di moderno “hard core troubadour”, giusto per citare un titolo di una sua composizione, stasera peraltro riesumata, contenuta nell'album della sua rinascita artistica e umana, quel I Feel Alright, dal quale attingerà ripetutamente nel corso del concerto, raccontandoci, con il cuore in mano delle sue rovinose cadute, attraverso il picking country blues di un'agrodolce South Nashville Blues, e il sulfureo incedere di una straniante CCKMP (Cocaine Cannot Kill My Pain) a dir poco da brividi nel mettere in luce le debolezze di un uomo scampato per miracolo al demone della droga, cantando infine, con rauco trasporto, della propria ritrovata stabilità fisica ed emotiva in una Feel Alright introdotta dal metallico soffiare dell'armonica. Da I'll Never Get Out Of This World Alive provengono invece una God Is God dalla confessionalità religiosa al limite del gospel, e l'accorata dichiarazione d'amore di una confidenziale Every Part Of Me. Commovente è l'omaggio all'ispiratore e amico di lunga data, Townes Van Zandt, con una sommessa Rex's Blues, eseguita quasi in medley con un altrettanto vissuta Fort Worth's Blues. Abbandonata la chitarra ed imbracciato il mandolino veniamo guidati invece, con una Dixieland dal retrogusto grassy, verso quella “montagna” scalata anni fa in compagnia della Del McCoury Band, per poi attraversare l'Oceano, fino a raggiungere le brughiere irlandesi, sulle leggiadre note della splendida Galway Girl. L'impegno sociale, le battaglie per i diritti civili e le campagne di sensibilizzazione delle quali il nostro è sempre stato tra i più fieri sostenitori, emergono invece nella drammatica narrazione sonora di Billy Austin, preceduta da un ringraziamento alle associazioni umanitarie italiane per il loro fondamentale contributo alla battaglia per l'abolizione della pena di morte, per poi lasciarsi andare ad una ruvida, veloce The Devil's Right Hand, a rimembrare insieme ad una altrettanto sanguigna Copperhead Road il proprio passato rockista. È tuttavia con i bis che il rapporto empatico tra artista e pubblico raggiunge il suo massimo, con Earle a deliziare i presenti con una vibrante Christmas In Washington, preghiera laica rivolta al mai dimenticato Woody Guthrie, cantata in coro da tutti i presenti, prima di far ritorno, per un'ultima volta, con una verace rivisitazione di Guitar Town, a quella Nashville dove, ventotto anni fa, tutto ebbe inizio. Un songwriter ed interprete eccelso, Steve Earle, capace, da solo, con l'ausilio di pochi, essenziali strumenti ed un songbook d'atemporale bellezza, di dispensare emozioni difficili da descrivere a parole, ma di una tale salvifica forza da farci canticchiare, mentre abbandoniamo il teatro ormai vuoto, “I feel alright, I feel alright tonight”.



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