martedì 19 agosto 2014

Jonathan Wilson @ Mojotic Festival - Sestri Levante

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Risuonano ancora le ultime note della earliana Guitar Town, come trasportate dal soffiare della brezza marina, in una Sestri Levante che si appresta ad ospitare, nel suo intimo abbraccio, un nuovo appuntamento live targato Mojotic Festival. E se per l'appunto ieri sera un solitario Steve Earle aveva ammaliato una platea adorante con la forza lirica della propria voce, dividendosi tra chitarra acustica e mandolino, accompagnandoci ad esplorare le strade meno battute dell'America di provincia, oggi a prenderne il posto in veste di “guida sonica” sarà Jonathan Wilson, songwriter originario del North Carolina, ma avente trovato nella California, e nella quiete bucolica del Laurel Canyon in particolare, il proprio “habitat” musicale. Tra le colline alle porte di Los Angeles il nostro ha infatti avviato una fervente attività dietro al bancone di regia, fino a diventare uno dei più apprezzati e richiesti produttori odierni, decidendo in seguito di dare sfogo anche alle proprie pulsioni creative, dapprima organizzando jam informali all'interno del proprio studio - in compagnia di amici del calibro di Chris Robinson, Pat Sansone e John Stirratt dei Wilco, solo per citarne alcuni – in un primo passo verso quella che si sarebbe tramutata, di lì a poco, in una carriera solista sbocciata con lo splendido debutto Gentle Spirit, al quale ha replicato lo scorso anno, l'altrettanto riuscito Fanfare. Una musica dal fascino atemporale, quella contenuta tra i solchi di questi suoi, primi, lavori da titolare, pervasa dagli echi lontani della magica stagione musicale vissuta, tra le alture del Laurel Canyon, nei primi anni Settanta. Armonie westcoastiane, debitrici tanto dell'unirsi vocale di Crosby, Stills e Nash, quanto dell'ugola di Jackson Browne, a sublimare un'ammaliante aura folk rock di stampo californiano, si fondono con gli acidi sentori elettrici della vicina San Francisco, dando vita ad una spirale armonica dalla vorticosa estasi allucinatoria. Ed è questa magia sonica che Jonathan Wilson ha saputo ricreare questa sera sul palco del Teatro Arena Conchiglia, in un prolungato, trascendente Big Moon Ritual, giusto per citare il titolo del debutto discografico della Brotherhood capitanata dall'ex “compagno di jam” Chris Robinson, con la quale il nostro presenta più di un punto in comune. A far entrare il copioso pubblico, affollante gli spalti del teatro, nel mood della serata provvede tuttavia Omar Velasco, chitarrista “al soldo” dello stesso Wilson, presentando, solo voce e chitarra alcuni brani tratti dal suo EP, See Lion Run, alternando ad un neo folk proveniente dalle Blue Ridge Mountains delle “volpi di velluto”, inaspettati sconfinamenti sudamericani, con una sentita riproposizione di Alfonsina Y El Mar, in omaggio alla “cantora popular” Mercedes Sosa. Non vi è neanche bisogno di un veloce cambio palco che su di un'inquietante risata in sottofondo Wilson e i suoi sodali guadagnano il proscenio, con subito il tocco morbido sui tasti del piano di Jason Borger, a tessere la gentile melodia di Lovestrong, unico sostegno alla voce di Wilson la cui cristallina, tenue tonalità rimanda, a tratti, a quella del Graham Nash dell'esordio solista, per poi ingaggiare, una volta imbracciata la propria chitarra, quello che sarà solo il primo di una lunga serie di duelli solistici con Velasco, deviando il tutto verso una liquida divagazione di stampo floydiano. Se, già nella loro versione in studio, i brani partoriti dalla penna wilsoniana spiccavano per la loro consistente durata, dal vivo vengono ulteriormente dilatati, tramutandosi in autentiche ondate psichedeliche, a travolgere gli astanti nel loro sciabordante muoversi, tra anfratti di struggente bellezza catartica e acuminate spigolosità strumentali. Ogni brano è come parte di un unico continuum narrativo-musicale, di una jam infinita avente tuttavia come proprio punto di partenza la primigenia struttura armonica e lirica sulla quale i brani medesimi sono stati creati. Una dimensione sonora, quella wilsoniana, dove songwriting e pratica improvvisativa hanno, pertanto, entrambi il medesimo peso specifico, essendo il primo elemento fondamentale per l'esistenza della seconda. Una forma canzone aperta quindi, con la voce di Wilson quale iniziale, luminosa linea guida, a condurci attraverso un inquieto svolgersi narrativo-sonoro, per poi cedere il testimone ad una chitarra elettrica assurgente al ruolo di traghettatrice verso nuovi ed inesplorati mondi improvvisativi. Ne sono esempio una Fanfare dall'evanescente grazia jazzy, così come l'intima spiritualità di una Magic Everywhere, dove le voci di Wilson e Velasco si congiungono magistralmente, con la sedici corde del secondo a contrappuntare la “canonica” chitarra acustica del titolare, in un incedere younghiano rimandante a 4 Way Street, epica testimonianza dal vivo dell'avventura a nome CSNY. Il vellutato pulsare funk di Fazon, vecchio brano dei Sopwith Camel, allucinata compagine operante in quel di San Francisco verso la fine degli anni Sessanta, dà modo al basso di Richard Gowen e alla batteria di Dan Horne di mettersi in mostra in tutta la loro compattezza ritmica., per poi ritornare, invece, con Gentle Spirit, a fluttuare in una nuova materica oasi d'agrodolce quiete. Un'altra concessione al materiale altrui è Angel, estrapolata da Heroes Are Hard To Find dei Fleetwood Mac, e trasformata in una desolata invocazione, con Wilson ad abbandonare per un momento la chitarra per scuotere uno shaker africano, in una sorta di tribale danza sciamanica. Moses Pain era una gemma dalla rilucente bellezza già nella sua versione in studio, ma dal vivo acquista ulteriore caratura, in una corale progressione, dopo un incipit d'introspezione dylaniana, degna del Jackson Browne di Running On Empty. Se dalla San Francisco dei primi anni Settanta i cinque hanno tratto spunto per la rivisitazione della summenzionata Fazon, per il loro modo di vestire sembrano appartenere a qualche comune hippie instauratasi in quel di Haight-Ashbury, quartiere della suddetta città californiana, ai tempi del Flower Power. Qui devono anche aver avuto un reciproco, dopato, scambio di vedute con i “vicini di casa” Grateful Dead, perlomeno ad ascoltare Dear Friend con i fraseggi veloci delle dita di Wilson a ricordare quelli del leggendario Captain Trips, quel Jerry Garcia che dei Grateful Dead era anima e mente, e la cui influenza sul modo di suonare del suo moderno “adepto” si avverte anche nel mistico ondeggiare di Desert Raven, così come in una Valley Of The Silver Moon, assurta ad autentico manifesto del divagare musicale wilsoniano, in quella che è un'ultima, libera cavalcata sonora, dallo straniante magnetismo. Vi è comunque ancora spazio per i bis, con gli addetti del festival a sistemare delle stuoie nello spazio tra palco e spalti, e sulle quali, prontamente, si assiepano gran parte dei presenti. Ora sembra davvero di essere a Watkins Glen o ad uno dei leggendari happening d'inizio anni Settanta, e la musica che scaturisce dal palco ce lo conferma, un'ultima volta, con una Love To Love, più volte invocata dal pubblico, offerta da Wilson come ultimo, prezioso dono da conservare alla fine di questo sfibrante ma incantevole “viaggio” musicale. Più che un concerto, infatti, quello a cui abbiamo assistito, o per meglio dire al quale abbiamo partecipato, questa sera è stato un caleidoscopico trip sonoro collettivo, privo tuttavia d'ogni controindicazione, anzi, al contrario, dispensante ipnotiche quanto corroboranti “buone vibrazioni”.

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