domenica 10 agosto 2014

Calexico @ Monfortinjazz - Monforte d'Alba

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Il verde sgargiante delle langhe piemontesi, nel suo fertile saliscendi tra vigneti e noccioli è diventato in questi anni, una suggestiva, cornice naturale per concerti ed incontri letterari. Un binomio quello tra il territorio langarolo e la cultura sul quale è stato creato, recentemente, il festival Collisioni capace di attirare migliaia di persone grazie anche ad una serie di eventi culturali di caratura internazionale. Ancor più longevo di quest'ultimo è tuttavia il Monfortinjazz, nato quasi trentotto anni fa, nel vicino paese di Monforte d'Alba, dall'illuminata idea di un piccolo gruppo di appassionati jazzofili, e tramutatosi nel corso del tempo in uno dei più attesi appuntamenti estivi. Vuoi per la programmazione, oculata e sempre all'insegna della qualità, o per la raccolta location dell'Auditorium Horszowski, piccolo anfiteatro naturale situato nella parte storica del paesino cuneese, la rassegna ha visto negli anni incrementare nel numero un pubblico attento e partecipe. Un cartellone, quello approntato quest'anno, come da tradizione tanto ricco quanto variegato, nella sua apertura verso sonorità “altre” rispetto al jazz. Di fianco a nomi altisonanti quali Paolo Fresu Quintet e la Arto Lindsay Band, con ospite d'eccezione il chitarrista extraordinarie Marc Ribot, trovano così spazio quelli dei Gov't Mule e dei Calexico. Un'occasione più unica che rara quella di poter ammirare, ed ascoltare, il combo guidato da Joey Burns e John Convertino, nell'intimo raccoglimento del succitato Auditorium Horszowski, dove la consueta “barriera” tra artista e pubblico viene meno grazie all'assenza di un vero e proprio palco, accentuando, in tal modo, la vicinanza emotiva e fisica tra le due, opposte, “parti in causa”. Compito di aprire la serata spetta tuttavia ai nostrani Guano Padano, nati inizialmente come valvola di sfogo di alcuni musicisti gravitanti nell'orbita caposseliana ma divenuti ben presto un progetto di maggior compiutezza, con all'attivo due lavori in studio di pregevole fattura, e con un terzo di imminente pubblicazione. Il trio, guidato saldamente dalla sei corde di Alessandro “Asso” Stefana e completato dalla sezione ritmica affidata ai tamburi di Zeno Rossi e al basso di Danilo Gallo, ha saputo egregiamente confermare on stage quanto di buono lasciato trasparire dall'ascolto delle loro opere in studio, in un breve quanto apprezzato set strumentale dove il guano, di provenienza padana, si è più volte sporcato con la sabbia del deserto americano, tra rimandi all'immaginario western morriconiano e sbuffanti digressioni tra country e rockabilly. Un applauso più che meritato saluta quindi l'uscita di scena dei tre, acuendosi ulteriormente quando sul palco appare il settetto di Tucson. La line up è rimasta invariata rispetto alla loro ultima calata italiana, in supporto, dell'allora fresco di pubblicazione Algiers, i cui brani rappresenteranno l'ossatura anche dell'odierna set list, fin dall'apertura, affidata ad una evanescente, quanto insinuante, Epic. Non mancheranno tuttavia alcuni, tanto attesi quanto graditi, “ripescaggi” dal passato, prossimo e remoto, in una sorta d'ideale summa dell'epopea sonora calexichiana, a cominciare dalle roventi sonorità tex mex di Across The Wire, passando per il conturbante passo latino di una sensuale Inspiraciòn, fino all'onirica progressione di una dilatata Two Silver Trees. E se Splitter e una dolente Dead Moon provengono anch'esse dai solchi del summenzionato Algiers, con le pizzicate note inziali di Minas de cobre (For Better Metal) veniamo condotti nuovamente al di là del border, tra le visioni desertiche del seminale The Black Light. E proprio come l'automobile campeggiante sulla copertina di quest'ultimo, i Calexico paiono essersi, sempre più, tramutati in un veicolo sonoro rodato e ben oliato, lanciato in una continua, folle corsa tra la natia Arizona e l'America Latina. Ogni singolo contributo strumentale dei sette è volto infatti ad enfatizzare questo muoversi all'unisono, dando vita ad un evocativo suono “d'assieme” capace di far fluttuare la platea su di estatiche note sospese quanto di coinvolgerla in danze sfrenate. Un muoversi sonico all'unisono ben esemplificato da una magistrale Victor Jara's Hands, resa ancor più emozionante dal cantato in spagnolo di Jacob Valenzuela, così come da una maestosa Crystal Frontier. Piccola quanto inaspettata sorpresa è invece la prima “concessione” live riservata ad uno dei brani che i nostri stanno incidendo in questi mesi in Messico, ovvero una bluesata Bullets And Rocks, invero non ancora del tutto a fuoco, tanto da far confessare allo stesso Burns, una volta conclusa: “Ci stiamo lavorando”. Come in occasione dello scorso tour, dove spiccava la riproposizione della yardbirdsiana For Your Love, anche per questa nuova trance di concerti i nostri hanno deciso di inserire in scaletta una nuova rivisitazione del songbook altrui, appropriandosi, il più delle volte, di Bigmouth Strikes Again degli Smiths, questa sera sostituita dalla dylaniana Senor (Tales Of Yankee Power), già incisa insieme a Willie Nelson per la colonna sonora di I'm Not There, con Burns che, inforcati gli occhiali per leggerne il testo, riesce nel non facile compito di non far rimpiangere proprio la voce dello “straniero dai capelli rossi”, in un'avvolgente rilettura capace di fondere l'epos narrativo dylaniano con gli echi della tradizione musicale messicana. Ardimentoso quanto riuscito è anche il medley tra la melodia sospesa di Not Even Stevie Nicks e le ferali tonalità New Wave di una joydivisioniana Love Will Tear Us Apart, prima che un'incontenibile, con i suoi fulmini stacchi e ripartenze, Alone Again Or - figlia della penna di Arthur Lee ma ormai calexichiana a tutti gli effetti - e una ritmata Puerto - impreziosita dal contributo vocale di Jairo Zavala, autentico mattatore sonico per tutto il concerto nel suo destreggiarsi tra chitarra elettrica e lapsteel - pongano fine al set “regolare”. E se il vento freddo delle colline piemontesi comincia a stuzzicare i presenti, il miglior antidoto lo “somministrano” gli stessi Calexico che, ritornati sul palco, danno il via, con un'infuocata Corona, ad un'autentica fiesta latina, invitando tutti i presenti ad un ultimo scatenato ballo a passo di cumbia sulle note di una corale, irresistibile Guero canelo. Un'acustica pressoché perfetta, una location da mozzare il fiato e i sette di Tucson al massimo della propria forma espressiva, che altro aggiungere al resoconto di una serata memorabile se non... Que viva Calexico! 




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