domenica 6 luglio 2014

Clara Barker - Fine Art and the Breslins

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


“See the man with the stage fright...”, cantava Rick Danko, l'indimenticato bassista della leggendaria Band, quasi ad esorcizzare una paura, quella del palcoscenico, da sempre incubo dei musicisti, siano essi narcisistiche “prime donne” avvezze alle luci della ribalta, quanto imberbi esordienti di belle speranze. Un'ansia, quella di esibirsi di fronte ad un pubblico, attanagliante anche Clara Barker, giovane songwriter dell'Isola di Man, incapace di replicare dal vivo quanto prodotto, musicalmente, nella protetta solitudine delle proprie pareti domestiche. C'è stato bisogno di una drastica “terapia d'urto”, esibendosi in una serata open mic, a pochi passi da casa, per sconfiggere questa sordida fobia, acquistando una sicurezza performativa tale da spingerla ad “imbarcarsi” in una serie di date sul suolo britannico, fino a raggiungere quegli Stati Uniti a lungo sognati. A queste prime esperienze on stage ha fatto seguito anche l'ingresso tra le pareti di uno studio di registrazione, dove le canzoni, annotate su di un taccuino nelle solitarie giornate casalinghe, hanno dato forma ad un esordio, Indigo, seguito a breve distanza da un EP dal vivo, Hard Work And Whiskey, ulteriore testimonianza d'una, ormai acquisita, sicurezza scenica. Lavori, quest'ultimi, nei quali la lucente leggerezza del pop si 'sposava”, idealmente, con una fragilità acustica di lontana derivazione folk, in un “matrimonio musicale” che pare perdurare anche nell'odierno Fine Art And The Breslins. Una cifra stilistica, dalla gioiosa effervescenza melodica, nella quale tuttavia erano, e sono tutt'oggi, riscontrabili alcuni palesi punti deboli, a cominciare dalla voce della Barker, sin troppo esile nel suo svolazzare armonico, in un monocromatismo tonale a tratti impalpabile. Ai limiti espressivi di quest'ultima si aggiunge un songwriting ancora acerbo, nonché sin troppo “ballerino” nel suo barcamenarsi tra le influenze più disparate, e spesso inconciliabili tra loro, con il negativo risultato di appesantire i pentagrammi con tronfi e melensi arrangiamenti. Paradossalmente è infatti quando la Barker compone “per sottrazione” che sembra ottenere i risultati migliori, come in Hard Work And Whiskey e Happy Accidents, ballate d'asciutta e rarefatta delicatezza acustica, frutto di un più parco lavorio arrangiativo. Convincono, allo stesso modo, anche lo scalpitio country folk di Love (Fill My Heart), e la personale, frizzante rivisitazione del boom chicka boom cashiano di Still Here, mentre, al contrario, tanto l'opener Angel quanto una patinata e ruffiana Sollami and Sollamar sono confezionate ricorrendo a dosi di zuccherina melassa pop talmente sovrabbondanti da mandare in shock diabetico anche il divoratore di “caramelle soniche” più goloso. Materia sonora, quella pop, che la Barker tenta infine di variegare, in Dodging Bullets e Seth's Song, ricorrendo a sintetiche atmosfere elettroniche con risultati, invero, più che discutibili. Se l'ansia da palcoscenico è ormai solo un lontano ricordo, oggi la Barker dovrebbe invece concentrare la propria attenzione su di un songwriting ancora troppo altalenante nel suo passare da momenti d'ispirata grazia compositiva a rovinose cadute di stile.



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