giovedì 19 giugno 2014

Wovenhand - Refractory obdurate

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)



Refrattario ad ogni compromesso e ostinato nel portare avanti la propria “missione divina”; si potrebbe prendere spunto proprio dalla nomenclatura del nuovo capitolo della deviata “bibbia musicale” a nome Wovenhand, per descriverne il deux ex machina, David Eugene Edwards, allucinato predicatore dallo sciamanico magnetismo, con un'infanzia trascorsa nel bigottismo protestante dell'America rurale. Infanzia, per l'appunto, marchiata a fuoco da un'educazione religiosa rigida e rigorosa, che ha segnato nel profondo l'uomo Edwards. Religiosità che il nostro ha, suo malgrado, interiorizzato, per poi rielaborare, con il prosieguo degli anni, grazie ad un ardente furore pentecostale, trovando in una materia sonica d'altrettanto arcaico spiritualismo, nota con il nome di Americana, il canale ideale attraverso il quale diffondere il proprio, inedito verbo. E se agli albori della saga a nome Wovenhand era proprio il folk, intinto in nere tonalità apocalittiche, mutuate dalla precedente esperienza collettiva a nome Sixteen Horsepower, l'elemento basico di un ribollente maelmstrom sonico, in tempi recenti abbiamo assistito ad un ulteriore, scorticante, imbastardimento d'una formula sonora oggi pregna d'una nuova dilaniante pervasività. Un cambiamento avvertibile già nel precedente The Laughing Stalk, dove plumbee arie folk si fondevano con caustiche nevrosi post punk, enfatizzando in tal modo, ancor più, il trascendente discernere lirico dello stesso Edwards, in una malata dialettica, tra antico e moderno, avente ruolo preminente anche nell'odierno Refractory Obdurate. Dieci capitoli mistico-religiosi, quelli qui contenuti, ispirati al Vecchio Testamento di biblica memoria, entro i quali confluiscono le ansie, le paure, le perversioni e le visioni salvifiche, da sempre contraddistinguenti il songwriting edwardsiano. Fulcro narrativo, d'evocativa drammaticità, è come sempre la voce di Edwards, nel suo mantrico cantilenare, intorno al quale viene innalzata una cattedrale sonica dalle acuminate guglie moderniste. E se il nostro pone, di quest'ultima, la “pietra angolare”, grazie alle proprie, schizofreniche capacità autoriali, i suoi adepti (Chuck French alla chitarra, Neil Keener al basso e Ordy Garrison alla batteria) dimostrano la loro cieca devozione alla parola del “profeta” contribuendo, con abrasiva accondiscendenza, all'edificazione strumentale del tempio wovenhandiano. Nascono in tal modo affreschi sonici quali l'opener Corsicana Clip, figlia illegittima, con il suo sepolcrale caracollare elettroacustico, dell'operato dei Sixteen Horsepower, dove spicca il succitato, salmodiante vociare del nostro, o le inflessioni mediorientali trasudanti tanto dal misticheggiante crescendo armonico di King David, che dall'intrecciarsi delle corde di una Obdurate Obscura dall'ipnotico splendore, con uno slide tagliente a produrre metallici stridori su di un substrato percussivo affidato al secco percuotere di una darbuka. Una grandeur strumentale avente la propria sublimazione nella maestosa The Refractory, tra scheletrico arpeggiare d'acusticità folkie, deflagranti stilettate elettriche, e rallentate pulsioni ritmiche. In Masonic Youth, così come nelle quasi speculari Good Shepherd e Field of Hedon, i ritmi si fanno, al contrario, più serrati, avvolti da dense spirali di ottundente elettricità new wave. Ancor più funerea, nel suo addentrarsi attraverso arcane coltri doom, è la marziale Hiss, innervata da un acido rifferama “rubato” al miglior Tony Iommi, mentre la conclusiva El-bow è una straniante digressione, d'esasperante lentezza, attraverso dopati territori sludge folk. Pur essendo cambiato nella forma il “refrattario, ostinato” verbo edwardsiano mantiene oggi intatto tanto il proprio fervore messianico, quanto una seducente malia ancestrale, dando vita ad un trascendente rito chiesastico al quale abbandonarsi in preda ad un'innodica trance.

Nessun commento:

Posta un commento