
giovedì 27 giugno 2013
The Danberrys - The Danberrys
(Pubblicato su Rootshighway)
"You can't judge a book by looking at the cover" cantava Elias Bates McDaniel, meglio conosciuto come Bo Diddley. Niente di più vero, anche se, per quanto riguarda l'omonimo debutto dei Danberrys, la copertina riveste un ruolo di notevole importanza, se non nel dare un giudizio a priori sulla bontà della loro proposta sonora, quanto meno nel farsi un'idea sulle coordinate stilistiche sulle quali quest'ultima si attesta. Copertina che, a livello iconografico, riconduce ad un'arcaica vita rurale, con un vecchio fienile in primo piano, non dissimile da quello presente su di una recente fatica discografica di mastro Willie Nelson, dal titolo Country Music, altrettanto esplicativo di quanto contenuto al suo interno. E proprio quest'ultima è la materia sonora che i due coniugi Dorothy Daniel e Ben DeBerry (la cui unione dei cognomi dà vita alla loro odierna ragione sociale) plasmano con perizia, ibridandola con scure trame folkie, per poi rinvigorirla attraverso palpitanti pulsioni ritmiche, debitrici tanto verso il più ruspante bluegrass quanto nei confronti di sincopate movenze di derivazione funk. Il tutto suonato mediante strumenti acustici, con i due "titolari" impegnati, oltre che al canto, alle sei corde, caparbiamente sostenuti dal contrabbasso di Jon Cavendish, e dai ricami melodici del mandolino di Ethan Ballinger e del violino di Christian Sedelmeyer. Un quintetto dall'impostazione "classica" quindi, almeno in base ai canoni stilistici del genere proposto, tuttavia versatile nel suo passare, con nonchalance, da ballate di crepuscolare fascino folk ad ariose fughe grassy. Versatilità che trova la propria sublimazione in questo loro primo full lenght, che giunge alle stampe dopo un EP, Company Store, e due successivi singoli; registrato in due differenti studi tra il verde bucolico delle campagne del Tennessee. Un lavoro in grado non solo in grado di mostrare il livello di maturità raggiunto dalla scrittura dei due coniugi, le cui penne si muovono armoniosamente su pentagramma come le loro voci sulle splendide melodie contenute tra i solchi del medesimo album; ma riesce altresì nel non facile intento di trasporre su nastro quell'aura di genuinità che la loro musica irradia. Ne è esempio l'opener Here We Go Round, deliziosa nella sua grazia folkie, arricchita da esili echi gospel, dove emerge la dolente interpretazione vocale della Daniel, ulteriormente acuita dai controcanti del proprio consorte. Voci che si avvicendano nell'altrettanto raccolta Blow On Wind, per poi unirsi infine, in enfatiche armonizzazioni, in Meet Me There, inno cristiano del Diciannovesimo Secolo, opera della poetessa Fanny Crosby. Altrettanto degni di menzione sono anche i brani dal più sostenuto incedere, come il caracollante country'n'grass Big Rig, o una Rain In The Rock dai sentori irish, fino alle cadenze funk della corale Come Give It, ulteriore esempio dell'eclettismo di un quintetto, il cui debutto colpisce tanto per bontà quanto per freschezza e vitalità.

mercoledì 26 giugno 2013
Andrea Schroeder - Blackbird
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
“Blackbird singing in the dead of night“ cantavano quattro ragazzi di Liverpool nel loro “album bianco”, ispirandosi idealmente alle lotte del Movimento per i Diritti Civili americano; un canto, quello del merlo, realmente tra i più melodiosi all’interno del mondo degli uccelli, al quale Andrea Schroeder dedica il proprio debutto discografico, Blackbird. Esordio con alla base un processo compositivo alquanto particolare, come spiega la stessa Schroeder: “Molte delle canzoni sono nate da poemi, le melodie sono scaturite conseguentemente, in un’organica fusione con il lento fluire delle parole”. Nasce infatti artisticamente come poetessa la giovane tedesca, prima di dedicarsi, grazie all’incontro con il chitarrista danese Jesper Lehmkuhl, alla carriera musicale. Un percorso analogo a quello di un’altra “collega”, quella Patti Smith, con la quale la Schroeder mostra più di una similitudine anche a livello vocale. Sembra di vederli i due, novelli Smith e Kaye, nella loro piccola stanza nel Berlin Wedding, quartiere operaio della capitale tedesca, a centellinare note e melodie attorno ad ogni singola sillaba, nel tentativo di creare un tessuto lirico musicale dalla palpabile intensità emotiva. Un album, Blackbird, nero e scuro come il piumaggio del pennuto al quale è dedicato, in bilico tra livore malinconico e ipnotica sensualità, acuite dal lavoro in cabina di regia ad opera di Chris Eckman. La mano del leader dei Walkabouts è infatti ben avvertibile tra i solchi del lavoro, sia a livello d’invisibilità produttiva, soprattutto in un certosino lavoro di arrangiamento degli archi, quanto di attivo apporto strumentale, dividendosi in egual misura tra chitarra elettrica ed organo. Un tessuto sonico che fa tuttavia del minimalismo, di seppur struggente funzionalità, la propria forza, dove ad emergere è la voce della Schroeder sui chiaroscuri sonici dipinti dalla chitarra di Lehmkuhl. L’influenza smithiana come detto poc’anzi è quanto mai evidente, soprattutto in brani come l’opener Paint It Blue, in un’indolente crescendo emozionale, a tratti quasi operistico, quanto nelle vampate elettriche del serrato incedere di Bebop Blues, le cui liriche sono state estrapolate dal quasi omonimo poema, “Buffalo Bebop Blues” di Charles Plymell. Con la recitativa Wrap Me In Your Arms e la plumbea e spettrale Ghost Ship ci si addentra invece in territori cari al Nick Cave più intimista, in un dark crooning dall’insinuante malia. Oscurità che si dirada, perlomeno a livello sonoro, in Death Is Waiting, placida slow country ballad elettroacustica, prima di ritornare nell’ombra con la title track, notturna dedica al merlo stesso, dove l’evocativo canto della Schroeder è sostenuto da esili e crepuscolari partiture soniche per soli chitarra acustica, contrabbasso e violoncello. Chiude il disco una marziale Kalte, unico episodio in cui la cantante ricorre al proprio idioma natio, in un immaginifico quanto funereo incontro tra le anime di Marlene Dietrich e di Nico.
Un’opera prima di sorprendente maturità, Blackbird, che mostra un’artista ben conscia tanto dei propri mezzi, quanto della strada sonica intrapresa. Percorso che, se non subirà improvvise deviazioni, non potrà che portare in futuro ad altri capitoli musicali di siffatta bellezza.

Un’opera prima di sorprendente maturità, Blackbird, che mostra un’artista ben conscia tanto dei propri mezzi, quanto della strada sonica intrapresa. Percorso che, se non subirà improvvise deviazioni, non potrà che portare in futuro ad altri capitoli musicali di siffatta bellezza.
martedì 11 giugno 2013
Dead Man Watching - Love, come on!
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
Belleville, Illinois, o Raleigh, Carolina del Nord, piccoli, e per molti insignificanti, nomi nella sterminata immensità del territorio statunitense, eppure, nei primi anni Novanta, epicentro di una rivoluzione musicale, denominata Alternative country, capace di irradiare la propria influenza dalla remota Levelland verso i quattro punti cardinali, travalicando confini temporali oltre che fisici. E proprio all’operato di questi pioneristici beautiful losers, spesso scomparsi, troppo presto, tra le asfissianti maglie del mercato discografico, sembrano guardare i Dead Man Watching, trio veronese, formatosi nel 2007, con all’attivo già due EP, ed oggi al suo debutto sulla lunga distanza. Si perché questo Love, Come On! più che in uno studio veneto parrebbe aver avuto la propria genesi in qualche sperduta sala d’incisione a stelle e strisce, meta di giovanotti dalle belle speranze con una chitarra a tracolla e un foglio di liriche in mano, in cerca dell’ultima, ed unica, occasione per abbandonare definitivamente un’ordinaria ed angusta vita provinciale. Un album nel quale vengono convogliate, per fondersi infine in un’intrigante amalgama sonoro, le diverse personalità dei tre “titolari” del progetto, a cominciare dalla penna, tra slowcore e indie folk di John Mario, passando per il polistrumentismo sixties oriented dello sperimentatore sonico Gio, per giungere infine al substrato ritmico a cura di Astor Cazzolla, batterista open minded nonché ideale collante percussivo. Frutto di questa fatica compositiva “partecipata” è un impasto musicale che trae la propria linfa vitale tanto da polverose ‘rural route’, quanto da melodie westcoastiane provenienti dalla calda California, filtrando il tutto con introspezione avant folk e la lentezza dello slowcore. E proprio quest’ultima pervade tanto Red Balloon, meravigliosa nel suo lento e sognante svolgersi, tra umorali riff delle sei corde elettriche ed evocative armonizzazioni vocali; quanto le derive sperimentali di Here The Night Comes, esempio migliore, in coppia con l’iniziale In The Badlands, del riuscito connubio tra le differenti personalità dei tre musicisti veronesi. L’arrembante appeal di una Jesus Christ Wannabe, che evoca, complice un liquido organo, sonorità smaccatamente sixties, sposta invece il baricentro verso un folk, di solare impronta californiana, che ritroviamo, seppur nella sua accezione avant, tanto nella brumosa Bad Teen Movie, tutta giocata sul picking leggero della chitarra acustica, enfatizzato dagli inserti cameristici del violoncello di Andrea Marcolin e del violino di Erica Marson, quanto nella pacatezza sonica della sussurrata August Burns. Ci spostiamo invece dalle parti di Raleigh, con Give It A Sound, debitrice, vuoi anche per la presenza della pedal steel di Carlo Poddighe, nei confronti dei Whiskeytown di un ancora imberbe Ryan Adams. Sonorità quest’ultime che fanno capolino anche in Bite, tra classici stilemi country e sbuffi modernisti, tra i Flying Burrito Brothers parsoniani e gli Uncle Tupelo più “tradizionalisti” (quelli di March 16-20, 1992 per intenderci). La title track chiude infine come un’esile soffio di vento, simile a quello che “divide” i soffioni in copertina, un esordio di ottima fattura, opera di un combo che ha un solo difetto, vivere dalla parte sbagliata dell’Oceano.

martedì 4 giugno 2013
La Casa del Vento - Giorni dell'Eden
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
E’ sempre stato un collettivo “atipico” quello della Casa del Vento; nei suoi ranghi, in una convivenza musicale che dura ormai da più di vent’anni, trovano infatti posto un maestro elementare, un operatore cimiteriale, un musicista-fattore berlinese, un ricercatore e due musicisti erranti. Persone comuni quindi, capaci tuttavia di portare avanti un percorso artistico che, senza cedimenti di sorta, ha sempre saputo mantenere un forte impegno civile, raccontando storie di vita vissuta, tra ingiustizie Banga. Un incontro che pare aver sconvolto in parte il loro mondo musicale, o perlomeno questo è ciò che si evince ascoltando Giorni dell’Eden, nuova fatica discografica marchiata Casa del Vento. Il sestetto pare infatti aver accantonato, almeno in parte, la combattività sonora che ne aveva fin qui contraddistinto l’opera, in favore di una maggiore introspezione, alla quale si aggiunge, a livello testuale, un più consistente ricorso alla metafora, tralasciando gli slogan del passato. Un modo forse di scrollarsi di dosso le ingombranti etichette affibbiategli fin dagli esordi, prediligendo una dimensione più raccolta, tra melodie acustiche di stampo folk, e facendo proprio un idioma, quello inglese, solo sfiorato in passato. Risultato di questa trasformazione è appunto Giorni dell’Eden, un album, descritto dagli stessi autori, come poetico, aggettivo quanto mai calzante. Ad animare l’intero lavoro è la costante ricerca di “un proprio cielo”, lontano dalle brutture che funestano il mondo odierno, in un’ascesa verso aerei orizzonti che, in Portato dalle nuvole, trova nel violino di Andreas Petermann, un celeste traghettatore. Un guardare in alto verso sogni lontani che si scontra, tuttavia, in L’acrobata, con la paura di non farcela e di cadere sempre più in basso, pur permanendo nel cuore la speranza dell’avvento dei Giorni dell’Eden, invocati dalla stessa title track, nella quale troviamo alla sei corde elettrica nientemeno che Lenny Kaye, testimonianza di come il sodalizio con l’universo smithiano continui tutt’oggi. O come ribadito da Icarus, con ospite, alla voce, Violante Placido, dove la triste vicenda del personaggio mitologico viene riscritta, con un nuovo e moderno Icaro, le cui ali non vengono più bruciate dal sole, che può finalmente coronare i propri aneliti di libertà. Intrisa di malinconia è invece la pianistica Berlin Serenade, dedica ad una città, quella tedesca, molto amata, mentre particolarmente riuscito è il reprise di Just Breathe, dal songbook dei Pearl Jam, che Luca Lanzi rilegge in coppia con l’amico Francesco “Fry” Moneti, al mandolino, enfatizzandone ancor più, grazie ad uno scarno impianto strumentale, l’avvolgente melodia. Una ritinteggiatura, con acquerelli sonici dalle tinte pastello, che pare aver reso ancor più accogliente la Casa del Vento, uno dei pochi luoghi sicuri, ancora rimasti, nel quale trovar rifugio dalle intemperie, reali e metaforiche, in compagnia di vecchi amici, la cui musica non è forse mai stata così genuina e vitale.
subite e voglia di riscatto. Messaggi di grande valenza sociale quindi, quelli contenuti nelle loro canzoni, che hanno trovato un ideale veicolo sonoro in quel combat folk, che fin dagli esordi ha contraddistinto la proposta sonora del combo aretino. Abituati in passato a muoversi nella “parte scura” del mercato discografico, lontani dai riflettori dei media, i nostri sono recentemente balzati agli onori delle cronache musicali, grazie ad una collaborazione con la “poetessa del rock”, quella Patti Smith che li ha fortemente voluti al proprio fianco in ben due brani del suo recente album,

subite e voglia di riscatto. Messaggi di grande valenza sociale quindi, quelli contenuti nelle loro canzoni, che hanno trovato un ideale veicolo sonoro in quel combat folk, che fin dagli esordi ha contraddistinto la proposta sonora del combo aretino. Abituati in passato a muoversi nella “parte scura” del mercato discografico, lontani dai riflettori dei media, i nostri sono recentemente balzati agli onori delle cronache musicali, grazie ad una collaborazione con la “poetessa del rock”, quella Patti Smith che li ha fortemente voluti al proprio fianco in ben due brani del suo recente album,
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