(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
Alzi la mano chi si ricorda di Mandrake, leggendario
personaggio dei fumetti che fece la sua comparsa, su carta stampata, agli inizi
degli anni ’30. E’ proprio al mago, partorito dalla fervida penna di Lee Falk, che
si rifà infatti l’omonimo combo livornese per la scelta del proprio monicker.
Scelta quanto mai azzeccata, visto che il quintetto capitanato da Giorgio Mannucci si diletta in veri e
propri giochi di prestigio, in questo caso sonori, estraendo tuttavia dal
proprio cilindro non il canonico coniglio ma bensì una creatura musicale di ben
più strane fattezze. Creatura che deve i propri natali alle fervide terre
albioniche, delle quali ha inglobato, all’interno del proprio Dna, arcaici geni
folk, reminescenze classiche e diramazioni di stampo indie pop. Per farvi
un’idea del sound approntato dai nostri immaginate di trovarvi di fronte a
degli imberbi Starsailor, quelli di Love Is Here per intenderci, in ritiro
spirituale nella verde e natia contea del Lancashire, intenti a dilettarsi con
gli stilemi sonori precedentemente menzionati. Dal gruppo di James Walsh, i
livornesi prendono infatti spunto per graffianti riff in puro stile british,
smussandone le asperità con bucoliche venature folkie e intarsi quasi barocchi.
Se l’iniziale I’m So Confused Part I pare uscita da lisergici
esperimenti beatleasiani, tra acidi intrecci vocali e un lieve abbozzo
strumentale in sottofondo, la quasi omonima I’m So Confused Part II, si
dipana intorno alla voce e alla chitarra acustica di Mannucci, alle quali si
aggiungono in un ipnotico crescendo musicale il violino di Asita Fathi e il flauto dell’ospite Tiziana Gallo. Sulla medesima scia
si muove Time che, tra ondeggiamenti ritmici, nuove radiose intuizioni
melodiche e complici il contributo vocale di Marta Bardi e il mandolino di Cristiano Tortoli, non sfigurerebbe tra i solchi di un album a
marchio Johnny Flynn, uno dei massimi esponenti del new folk inglese. Formula
quella scelta dai nostri che si rivela indubbiamente vincente, come ben
traspare da brani quali la ballata dalle tinte pastello Nothing Is
Predictable, o la conclusiva Soft Temple, dove è nuovamente la
chitarra acustica a condurre le danze, ideale fulcro sonico intorno al quale
volteggiano leggeri gli altri strumenti. Nei pentagrammi del quintetto trovano
spazio anche influenze caraibiche, radicate in You’re Not Here e nella
solare Uncertain Moment, dove sono prima l’ukulele, affidato allo stesso
Mannucci, e poi la tromba di Mauro La
Mancusa a creare un immaginifico ponte verso lontane terre tropicali.
Se i livornesi dimostrano di essere a proprio agio in oniriche digressioni
musicali, non si tirano certo indietro quando si tratta di effettuare
incursioni in territori pregni di elettricità, come nella vigorosa The Evil
Meeting o nei rimandi calexichiani di Neighbours, dove la quiete
della campagna inglese viene sferzata dall’impetuosità del desertico vento
dell’Arizona. Un esordio, Zarastro,
intriso di vera e propria magia con la quale i Mandrake riusciranno ad ipnotizzare più di un ascoltatore.
Venghino siori, venghino, non c’è trucco, non c’è inganno, solo splendida
musica.
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