mercoledì 14 dicembre 2011

The Black Keys - El Camino

C'erano una volta, in uno sperduto paese di nome Akron, due giovani ragazzi; il primo, Dan, dalla sfrenata passione per la musica e per la chitarra in particolare, mentre il secondo, Patrick, un improbabile quanto bizzarro incrocio tra un nerd e Buddy Holly. Ciò che univa questi due ragazzi era un'insana venerazione nei confronti di un bluesman, Junior Kimbrough, tanto da spingerli a formare un duo, nel quale far confluire il ruvido blues di quest'ultimo, con l'urgenza espressiva tipica del garage rock. Registrato un primo demo, trovato in Black Keys un nome pressochè perfetto, e firmato per la mitica Fat Possum, i due cominciarono a portare la loro musica in lungo e in largo per gli Stati Uniti, su di uno scassato ma fedele furgone. Dopo i primi successi di critica e pubblico, il futuro sembrava essere roseo per i nostri, fino a quando non incontrarono sulla loro strada un oscuro personaggio, tal Danger Mouse, il quale ne soggiogò il talento, tramutandoli sì in due affermate rockstar, ma allo stesso tempo privandoli della loro primitiva e grezza anima bluesy. Non aspettatevi tuttavia un finale lieto, non siamo in una fiaba dei fratelli Grimm, qui non vi sono eroi senza macchia o arditi cavalieri capaci di sconfiggere il malvagio Danger Mouse, liberando così il duo dalla sua gabbia dorata. Il perfido produttore mantiene tuttora saldamente nelle proprie mani lo scettro del potere, come peraltro si può evincere dall'ascolto di El Camino, ultima uscita discografica marchiata Black Keys. Con questo nuovo lavoro i nostri eroi si perdono ulteriormente nelle intricate trame del labirinto sonoro ideato dallo stesso Danger Mouse, tra ammiccamenti quasi pop e suoni spesso tronfi e ruffiani. Se l'obiettivo di El Camino era quello di accrescere ulteriormente la fama del duo, bisogna dire che esso assolve degnamente al proprio compito. Tutto pare pensato, studiato, scritto e suonato per poi essere riproposto nelle grandi arene, a cominciare dall'opener e primo singolo Lonely boy. Quest'ultima ha il suo punto di forza in un pressochè irresistibile riff di chitarra nonchè in un refrain killer capace di mietere vittime fin dal primo ascolto. Un deciso cambiamento di sonorità si avverte già con la successiva Dead and gone, che vira verso lidi cari a Joe Strummer e ai suoi Clash, ai quali la chitarra pare ispirarsi, prima che l'intero brano venga rovinato da un irritante uso delle voci. Gold on the ceiling cerca di fondere le atmosfere hard blues degli esordi con squarci psichedelici e sonorità più moderne, in quello che alla fine risulta comunque essere un intrigante pastiche sonoro. Little black submarines pare arrivare dall'esordio solista di Auerbach, e prendendo spunto dalla zeppeliniana Stairway to heaven, ne ricalca l'impianto strumentale, iniziando quasi in sordina, acustica, per poi esplodere nel finale in un elettrico tourbillon sonoro. I vecchi Black Keys tornano nuovamente a fare capolino in Money maker, sporco ed incalzante garage rock, materia nella quale i nostri dimostrano ancora di saper eccellere, come peraltro ribadito dalla successiva Run right back, seppur penalizzata da ulteriori iniezioni moderniste. Hell of a season riprende in parte le sonorità di Lonely boy senza però possedere l'appeal di quest'ultima. Definire oscene Sister e Stop stop sarebbe far loro un complimento; la prima un hard funk senza capo nè coda, mentre la seconda è da ascrivere tra i brani più insulsi ascoltati quest'anno, complice anche un ritornello che sfocia verso certa faciloneria pop. Nova baby ha un che di strokesiano, rubacchiando a piene mani dal catalogo musicale di Casablancas e soci, risultando alla fin fine piacevole e poco più. La conclusiva Mind eraser nulla aggiunge e nulla toglie all'economia dell'album; un onesto e robusto rock dalle reminescenze blues, senza infamia nè lode. Quello che balza subito all'orecchio, dopo l'ascolto dell'intero disco, è tuttavia un generale appiattimento musicale, una banalizzazione della formula sonora che da sempre aveva caratterizzato l'opera del duo di Akron. Vittime sacrificali sono senza dubbio la voce e la chitarra di Auerbach, mai come in quest'occasione addomesticate, svuotate e tenute quasi a freno; così come l'operato dietro ai tamburi di Carney, il cui drumming tanto furioso quanto originale pare essere solo un lontano ricordo, sostituito da un insipido e scontato accompagnamento ritmico. Gran parte della colpa è, a mio avviso, da ascrivere all'operato, dietro al banco di regia, di Danger Mouse, il quale è riuscito ancora una volta a deturpare quello che potenzialmente poteva essere un disco più che discreto, seppur privo del carattere e della personalità dei primi lavori. Speriamo almeno che on stage i nostri riescano a far riemergere la loro primordiale e infuocata anima blues, da veri animali da palcoscenico quali sono. Sono comunque certo che El Camino saprà mietere consensi sia di critica che di pubblico, come peraltro testimoniato dal sold out dell'unica data italiana del duo. A chi scrive piace, malgrado ciò, ritornare con la mente agli inizi della favola del duo di Akron, quando i nostri erano ancora due giovani e imberbi ragazzi della profonda provincia americana, che giravano su di un vecchio furgone con la musica di Junior Kimbrough a tutto volume. E ora scusatemi, ma andrò ad ascoltarmi nuovamente quel piccolo gioiello che era e rimane Thickfreakness.  

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