venerdì 30 agosto 2013

Daughn Gibson - Me moan

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Se l’esordio All Hell aveva ricevuto il plauso di critica e pubblico, aprendogli al contempo le porte della Sub Pop; con Me Moan, sua opera prima sotto l’egida dell’etichetta di Seattle, Daughn Gibson oggi porta avanti il proprio viaggio esplorativo, alla scoperta di nuovi meandri del suo Io sonico. Comune denominatore tra le due opere è tuttavia la voce baritonale dell’ex camionista di Nazareth, Pennsylvania, in questo frangente più vicina a quella di un Nick Cave dalle tinte gotiche, che alle precedenti, cavernose, tonalità cashiane. D’altra parte al nostro era stato affibbiato l’appellativo di “gothic cowboy”, a dir poco calzante nel descrivere tanto la tetra oscurità delle sue trame sonore, quanto la presenza, tra i solchi, di lontani echi di quel country ascoltato in passato, magari alla radio, durante gli interminabili viaggi lungo le highway americane. Country sapientemente ibridato attraverso sparute iniezioni elettroniche, come in Kissing On The Blacktop, quasi un’allucinata, e mai pubblicata, session, per la serie su American Recordings, tra Johnny Cash e Martin Gore, sotto l’attenta supervisione di Rick Rubin; o come ribadito da All My Days Off, tra sulfureo rumorismo elettronico e il plumbeo ondeggiare melodico di una lapsteel. Sembra invece sbocciare dalle “Cattive Sementi” caveiane l’opener The Sound Of Law, in un funereo sussultare ritmico, con Gibson protagonista di una sensuale quanto declamatoria interpretazione vocale, che molto deve proprio al “collega” australiano. Una fascinazione sonora dalle tinte dark che sembra pervadere in particolar modo gli episodi di maggior introspezione lirica, come la liquida litania di The Pisgee Nest, o un’eterea Franco, con la presenza, sullo sfondo, degli spettri electro già elemento peculiare di All Hell. Figure soniche dalle fattezze ectoplasmatiche che fanno qui la loro comparsa, come evocate da un’immaginaria seduta spiritica, tanto nella marzialità deviata di una The Right Signs, avvolta nel finale da spire orientaleggianti, quanto nei palpiti modernisti di Phantom Rider. E se la scura fascinazione di Mad Ocean, con tanto di cornamuse campionate, sembra rappresentare l’ideale sunto sonico delle velleità artistiche e sperimentali gibsoniane, la conclusiva Into The Sea è invece un commiato, d’atmosferica intensità, da un album che non solo equipara la bontà del suo predecessore ma va a posizionarsi un gradino sopra di esso.

Nessun commento:

Posta un commento