
sabato 28 febbraio 2015
Pops Staples - Don't lose this
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
Sulla statura artistica e sull'importanza del suo operato, musicale e non, ci sarebbe da scrivere un libro, d'altronde Roebuck “Pops” Staples sembra essere stato, fin dalla giovane età, un predestinato. Nato e cresciuto nella piantagione di cotone di Winona, Mississippi, inizia presto il suo approccio la chitarra, strumento che non avrebbe abbandonato fino alla sua morte, per poi ritrovarsi a suonare al fianco di autentiche leggende quali Charlie Patton, Son House, e Robert Johnson. Trasferitosi negli anni Cinquanta, con la propria famiglia, in quel di Chicago, insieme ad essa inizia ad esibirsi nelle chiese della città, per poi arrivare, nel 1952, ad apporre la propria firma su di un primo contratto discografico. Ha quindi inizio l'avventura “familiare” a nome The Staple Singers, della quale egli è fondamentale elemento catalizzatore, non solo grazie alla maestria del proprio picking chitarristico, quanto per una voce dalle vellutate tonalità soul, alla quale si uniscono, armonizzandosi, quelle dei figli Pervis, Cleotha, Yvonne e Mavis. Amico fraterno di Martin Luther King Jr., Pops ha sempre cercato di veicolare attraverso la propria musica un messaggio di amore, speranza e giustizia sociale, in contrapposizione alle barbare violenze razziste dell'America bianca. Canzoni nelle quali gospel, folk, blues e soul si fondevano in un tutt'uno, andando a scandire ritmicamente i passi delle freedom march, lungo l'irta e difficile strada dell'emancipazione nera. E proprio come epitaffio di questa straordinaria avventura familiare era stato originariamente concepito Don't Lose This. Si tratta infatti di canzoni, incise dallo stesso Pops in compagnia delle proprie figlie, nel 1999, giusto un anno prima che egli lasciasse questo mondo, e purtroppo mai completate, anzi rinchiuse in un cassetto per oltre quindici anni. Nastri custoditi gelosamente da Mavis, la quale, oggi, rispettando la promessa fatta al padre, ovvero quella di non abbandonare queste registrazioni all'oblio ma di far in modo che tutti potessero ascoltarle, decide che è finalmente giunto il momento di pubblicarle. Al suo fianco, in questa impresa, troviamo un suo “vecchio” amico, quel Jeff Tweedy avente rivestito già parte attiva nei suoi ultimi, meravigliosi lavori solisti, e qui nuovamente chiamato in veste di produttore. Ma si sa, dalla produzione al contributo in prima persona il passo è breve, ed ecco quindi che troviamo lo stesso Jeff, al basso, e suo figlio Spencer, alla batteria. Da una parte abbiamo pertanto lo scheletro originario dei brani, con la voce e la chitarra di Pops, alle quali sono stati aggiunti, oltre a quelli già presenti, nuovi apporti vocali della stessa Mavis, mentre dall'altra troviamo, per l'appunto, la sezione ritmica “Tweedy & figlio”, con l'ulteriore presenza, in alcuni brani, dell'organo di Scott Ligon. Apporti quest'ultimi mai invero invasivi, volti anzi a preservare, su volere dello stesso Tweedy, la primigenie, scarne registrazioni. Ciò si evince in particolar modo in brani dove queste ultime sono lasciate per lo più immacolate, se non per qualche sparuto, nuovo contributo vocale, nelle quali ad emergere sono per l'appunto la voce e la chitarra elettrica di Pops, come nella purezza adamantina di Sweet Home (commoventi i dialoghi tra padre e figlia lasciati alla fine della stessa) e della quasi omonima Better Home, entrambe in duetto con Mavis, o altresì una solitaria Nobody's Fault But Mine, dalla lancinante sofferenza bluesy. Notevoli sono, tuttavia, anche i brani “d'assieme”, come il fiero declamare soul di Love On My Side, affidato alla voce solista di Mavis, o una sublime Friendship, a rimembrare l'universalistico, speranzoso messaggio staplesiano. Negli enfatici incroci vocali dell'opener Somebody Was Watching, così come nelle sincopi funk di un altrettanto energica No News Is Good News, maggiormente si avverte, invece, il contributo percussivo tweediano, volto ad irrobustire il rapimento mistico derivato dal dilatato riverberare della chitarra elettrica. D'una bellezza cristallina è, d'altro canto, Will The Circle Be Unbroken, già registrata dagli Staple Singers ai loro esordi discografici, e qui riproposta in una nuova versione a “chiudere un cerchio” aperto quasi cinquanta anni fa, essendo questa la prima canzone che Pops insegnò ai propri figli. La dylaniana Gotta Serve Somebody, unico brano non appartenente alle primitive registrazioni, viene qui accluso in una prorompente rivisitazione live dalla chiesastica solennità devozionale. L'opera è quindi compiuta, il volere del vecchio musicista è stato rispettato e come la stessa Mavis spiega; «I’m so happy; my job is done, I’ve done what I was supposed to do... Pops is smiling and I can just see that twinkle in his eye. That was Pops Staples; he lived the life he sang about». Mai parole avrebbero potuto essere più esaurienti, e sono sicuro che da lassù Pops starà davvero sorridendo soddisfatto, ringraziando la figlia per quest'ultimo, partecipato atto d'amore.

sabato 21 febbraio 2015
Steve Earle and the Dukes - Terraplane
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
«I's up this mornin', ah, blues walkin' like a man; I's up this mornin', ah, blues walkin' like a man; worried blues give me your right hand», cantava un tormentato Robert Johnson in uno dei brani, Preachin' Blues per l'esattezza, impressi su nastro in una stanza del Gunter Hotel di San Antonio, nella sua seconda, leggendaria seduta di registrazione, datata 27 novembre 1936. Afflizione bluesy che sembra oggi pervadere anche il, già tormentato, animo di Steve Earle, tanto da spingerlo a dare alle stampe l'odierno Terraplane, quasi a voler, in tal modo, esorcizzare i propri personali “blue devils”. Con un titolo mutuato, come già avvenuto per lo stesso Johnson (vedasi l'autografa Terraplane Blues incisa anch'essa presso il medesimo hotel texano, seppur in una seduta di registrazione di quattro giorni antecedente quella poc'anzi menzionata, ndr), da un modello automobilistico prodotto dalla Hudson Motor Company, il nuovo parto discografico del songwriter texano può essere altresì letto come un sentito omaggio al blues stesso. Composto per un terzo, durante il proprio, recente solo tour europeo, Terraplane è stato infine registrato, sotto la supervisione di R.S. Fields e Ray Kennedy, in quel di Nashville, presso gli House of Blues Studios, avvalendosi del prezioso contributo strumentale dei fidi Dukes, ovvero la dirompente sezione ritmica formata dalla batteria di Will Rigby e dal basso di Kelly Looney, la sferzante chitarra elettrica di Chris Masterson e il violino, della di lui moglie, Eleanor Whitemore. Undici le composizioni approntate da Earle per l'occasione, ad abbracciare, secondo una personale visione della materia sonora in esame, le differenti accezioni territoriali e stilistiche da sempre tratto peculiare del blues medesimo. Si passa pertanto, geograficamente, dal Lone Star State, con il torrido Texas blues marchiato Sam “Lightining” Hopkins dell'iniziale Baby Baby Baby (Baby), resa ancor più rutilante dal grasso soffiare di un'armonica distorta, e della sincopata The Usual Time, alle paludi della Louisiana, finendo invischiati nel putrido swampy sound di You're The Best Lover That I Ever Had e di una pervicace Go Go Boots Are Back, entrambe parenti illegittime delle stagnanti ipnosi sonore di Tony Joe White. Reiterare ipnotico che ritroviamo nello spiritato sproloquiare di The Tennessee Kid, che non avrebbe sfigurato tra i solchi di Hooker'n'Heat, mirabile incontro tra l'ossessivo battere percussivo hookeriano e il nerboruto boogie dei Canned Heat di Henry Vestine. Non mancano tuttavia episodi figli di più scarnificati arrangiamenti acustici, come la swingata Ain't Nobody's Daddy Now, o l'erratico vagabondare country blues di Gamblin' Blues, mentre ben riconoscibile è la firma rootsy della penna del nostro tanto in una Baby's Just As Mean As Me, in duetto con Eleanor Whitemore, quasi una outtake della precedente release The Low Highway, con, sullo sfondo, l'ombra dell'amato Hank Williams a sporcarne di “bianco” i pentagrammi, o il febbricitante dimenarsi di un'epilettica Acquainted With The Wind, entrambe assimilabili ai canoni della “classica” produzione earliana, più che alla “negritudine” pervadente le altre tracce qui contenute. Blues tuttavia che torna protagonista prima con la slow ballad, dai sudisti echi staxiani, Better Off Alone, e infine con la conclusiva King Of Blues, martoriato shuffle dalla torrenziale furia elettrica. Un legame quello tra il barbuto texano e il blues che ha radici lontane e profonde, ed oggi trova finalmente viva testimonianza discografica con un lavoro, Terraplane, dalla penetrante, ruvida bellezza, alla cui realizzazione egli pensava da tempo, come peraltro ribadito nelle stesse liner notes; «For my part, I've only ever believed two things about the blues; one, that they are very democratic, the commonest of human experience, perhaps the only thing that we all truly share and two, that one day, when it was time, I would make this record».

Boister - Your Wound is Your Crown
(Pubblicato su Rootshighway)
"Una voce scura e terrosa, che fa sembrare Tom Waits una donnicciola"; con queste parole il compianto Jim Dickinson descriveva Anne Watts, cantante, compositrice e de facto leader dei Boister. E di musica quel vecchio marpione se ne intendeva eccome, anche se tuttavia queste sperticate lodi possono forse sembrare di parte, visto che egli si era accomodato in cabina di regia per Some Moths Drink The Tears Of Elephants, precedente release proprio dell'ottetto di Baltimora. Un dubbio fugato, fortunatamente, fin dalle prime note del loro settimo sigillo discografico, Your Wound Is Your Crown, libero profluvio di armonie, battiti e parole, dove le composizioni, partendo dai confini sicuri della forma canzone, si aprono a dilatate improvvisazioni, in un costante turbinio sonoro di ardua catalogazione. Notturne e fumose divagazioni jazzistiche, sgangherato incedere bluesy beefheartiano, esotiche aperture verso suadenti melodie orientali e intricate trame canterburiane vanno ad affollare, infatti, i bulimici spartiti boisteriani, forgiando un sussultante tappeto musicale, sul quale spicca, nel suo intenso declamare, la voce della Watts, pregna tanto del pathos della più enfatica Patti Smith quanto delle grigie tonalità d'una malinconica Mary Gauthier. Non mancano tuttavia episodi interamente strumentali, ove maggiormente si avverte l'importanza dell'approccio free form alla base dell'economia sonora del collettivo, come nell'opener Emmeline (Prelude), per l'appunto un placido preludio, dal flemmatico svolgersi jazzy, o in una coltraniana Martillo, dove la parte del leone è affidata al fiati di John Dierker e di Craig Considine. Pare invece di assistere ad un reading della summenzionata Smith, accompagnata da una, neanche troppo, irreggimentata Magic Band, di beefheartiana memoria, in una Crown dal passo claudicante, così come torna alla mente la vocalità della Gauthier nell'enfatico svolgersi narrativo di Sycamore. Al contrario in 14 i nostri rivolgono la propria attenzione agli echi musicali della vecchia Albione, ed in particolare a quelli provenienti dalla Canterbury dei Soft Machine, coniugando psichedelia e jazz, in un impetuoso strumentale costruito su controtempi, stacchi, ripartenze e pindarici dialoghi fiatistici, per poi far "visita" alla shakespeariana Stratford-upon-Avon, rielaborando le bardiane liriche de La Tempesta, nella pianistica litania di una Yellow Sands dall'afflato cameristico. Il sincopato palpitare neworleansiano della conclusiva As The Ship Goes Down, con, ancora, più di un rimando vocale alla succitata Gauthier, chiude degnamente un album forse di non facile fruizione, necessitante altresì di un ascolto attento e partecipato per poterne comprendere appieno la variegata stratificazione. Forse la musica dei Boister non "eleverà o migliorerà la vostra vita", come profetizzato a suo tempo dallo stesso Dickinson, ma indubbiamente saprà dispensarvi momenti di rara, immaginifica suggestione.

Rusties - Dalla polvere e dal fuoco
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
«La ruggine non dorme mai»; potremmo partire da questo assunto younghiano per descrivere la rocambolesca parabola artistica dei Rusties. Un accostamento quello con il vecchio canadese non del tutto casuale visto che i bergamaschi possono esserne considerati, musicalmente, i “figli illegittimi”, essendosi dedicati, fin dagli esordi con maestria e passione, all'esplorazione dell'opera di quest'ultimo tanto da diventarne in breve tempo una delle più apprezzate band tributo a livello europeo.
Un ‘rugginoso’ cammino che, tuttavia, ha visto i nostri, in seguito, svoltare per altri sentieri, pur viaggiando sempre in parallelo alle polverose strade battute dagli zoccoli del Bisonte e dei suoi Cavalli Pazzi, in cerca di una personale direzione musicale, culminata con la pubblicazione di due album di inediti, Move Along e Wild Dogs, salutati dalla critica come «i dischi più affascinanti in stile Americana mai prodotti da un gruppo italiano». Ed oggi, dopo un lungo iato discografico, durato quattro anni, la ‘ruggine’ bergamasca che nel frattempo, rimarcando ulteriormente le proprie affinità con quella younghiana, non si era per nulla assopita, torna ad intaccare con la propria ‘ossidante’ visione musicale, ma in modo del tutto inedito, pentagrammi altrui. Dalla Polvere E Dal Fuoco raccoglie infatti, per usare le parole degli stessi Rusties, nove “cover d'autore”, liberamente tradotte e riadattate in italiano da Marco Grompi, chitarrista, cantante e de facto mente, insieme all'amico Osvaldo Ardenghi, dietro al monicker Rusties, selezionate con cura, andando ad attingere al repertorio di artisti ai quali i nostri sono legati da un profondo rapporto tanto di ammirazione quanto di amicizia. Si spiega in tal modo una selezione alquanto variegata, a coprire un arco temporale piuttosto ampio, dalla fine degli anni Sessanta fino ai giorni nostri, passando, senza apparente soluzione di continuità dal già, ampiamente, frequentato songbook younghiano, per quello di un altro canadese doc, Bruce Cockburn, rendendo omaggio al compianto Warren Zevon, arrivando ad includere “nuovi” songwriter quali Chris Eckman e Robert Fisher. È il pregevole lavoro in fase di arrangiamento, operato dai Rusties medesimi, a legare brani sulla carta diversi tra loro, grazie ad un comune fil rouge, un impasto folk rock elettroacustico debitore tanto delle sonorità settantiane, a stelle e strisce, quanto della più pura tradizione cantautorale nostrana. Arrangiamenti che traggono ulteriore beneficio da una registrazione in presa diretta, avvenuta in quel di Grosseto, all'Ortostudio, sotto la supervisione attenta di Filippo Gatti, dalla quale si avverte lo sforzo collettivo di un quintetto forse mai così coeso e conscio dei propri mezzi espressivi. E se l'intrecciarsi delle corde delle due chitarre, acustica ed elettrica, affidate alle capaci mani dei succitati Grompi e Ardenghi, è da sempre uno dei tratti distintivi del "rusties sound", notevoli sono gli apporti strumentali delle tastiere di Massimo Piccinelli e del violino dell'ospite Jada Salem (loro vecchia conoscenza, avendo già preso parte alle sedute di registrazione di Move Along), ad arricchire armonicamente il preciso, costante pulsare di una sezione ritmica del tutto rinnovata, composta da Fulvio Monieri al basso e Filippo Acquaviva alla batteria, ma già dimostratasi perfettamente integrata nell'economia sonora collettiva. Ad emergere, in modo preponderante, è tuttavia la sensibilità narrativa di Grompi, autentico artigiano della parola, capace di uscire, più che, vincitore dall'ardua impresa di piegare all'italico idioma le liriche originarie. Se forse è scontato appurare come il quintetto si trovi perfettamente a proprio agio nel rivisitare e riadattare la, già familiare, opera del proprio padre putativo, con una grintosa Powderfinger, tramutatisi in Dalla Polvere E Dal Fuoco, il cui testo è un libero adattamento della, precedente, traduzione ad opera di Mimmo Locasciulli e Cereno Diotallevi (all'anagrafe Francesco De Gregori), e l'etereo incanto de La Signora, in origine The Old Laughing Lady, qui avvolta da una parsoniana aura cosmic country, è quando essi rivolgono la propria attenzione verso altri autori, che giungono le più inaspettate quanto gradite sorprese. A tal proposito come non menzionare una cockburniana Pacing The Cage dalla sommessa fragilità acustica, qui diventata Dentro La Gabbia, tra il metallico risuonare di un glockenspiel, e il flessuoso muoversi dell'archetto sul violino della Salem. Non manca tuttavia quella fisicità febbrile anch'essa caratterizzante, da sempre, l'operato rustisiano, e qui affiorante in modo deciso, nella furia elettrica di Se Solo Avessi Un Lanciarazzi (If I Had A Rocket Launcher), ad enfatizzare ulteriormente le originarie, rabbiose liriche poste su carta dalla penna del medesimo Cockburn. E se la gemma martyniana Solid Air (Aria Solida) viene qui riproposta in una lisergica, rallentata versione forse più vicina alla California dei Crazy Horse, che alla Scozia del suo autore, ad impressionare, per resa finale, è la riedizione di The Logical Song dei Supertramp, in una sussultante Canzone Logica sintomatica dell'onnivora fame musicale dei bergamaschi. Ottimo anche il trattamento riservato tanto a Ombre All'Orizzonte (Ghost Along The Borders), facente parte dell'ultimo, stupendo parto solista di Chris Eckman, Harney County, in una dimessa ballata dalla paradisiaca grana melodica, quanto a Le Intenzioni Di Harrison Hayes, la The Trials Of Harrison Hayes di fisheriana memoria, ideale anello di congiunzione tra l'alternative country dei Willard Grant Conspiracy e la pregnanza letteraria del cantautorato nostrano. Da brividi lungo la schiena è poi la conclusiva, elegiaca Tienimi Con Te, ovvero Keep Me In Your Heart, uno degli ultimi, strazianti brani incisi da Warren Zevon prima di dare l'addio a questo crudele mondo. Una riuscita scommessa quella effettuata dai Rusties con Dalla Polvere E Dal Fuoco, in un primo tentativo di riappacificazione lirica con l'italico idioma, perpetrato grazie all'aiuto di spartiti “amici” e che, visti i considerevoli risultati ottenuti, ci auguriamo sia solamente un preambolo ad un nuovo, autografo percorso autoriale in italiano.

Un ‘rugginoso’ cammino che, tuttavia, ha visto i nostri, in seguito, svoltare per altri sentieri, pur viaggiando sempre in parallelo alle polverose strade battute dagli zoccoli del Bisonte e dei suoi Cavalli Pazzi, in cerca di una personale direzione musicale, culminata con la pubblicazione di due album di inediti, Move Along e Wild Dogs, salutati dalla critica come «i dischi più affascinanti in stile Americana mai prodotti da un gruppo italiano». Ed oggi, dopo un lungo iato discografico, durato quattro anni, la ‘ruggine’ bergamasca che nel frattempo, rimarcando ulteriormente le proprie affinità con quella younghiana, non si era per nulla assopita, torna ad intaccare con la propria ‘ossidante’ visione musicale, ma in modo del tutto inedito, pentagrammi altrui. Dalla Polvere E Dal Fuoco raccoglie infatti, per usare le parole degli stessi Rusties, nove “cover d'autore”, liberamente tradotte e riadattate in italiano da Marco Grompi, chitarrista, cantante e de facto mente, insieme all'amico Osvaldo Ardenghi, dietro al monicker Rusties, selezionate con cura, andando ad attingere al repertorio di artisti ai quali i nostri sono legati da un profondo rapporto tanto di ammirazione quanto di amicizia. Si spiega in tal modo una selezione alquanto variegata, a coprire un arco temporale piuttosto ampio, dalla fine degli anni Sessanta fino ai giorni nostri, passando, senza apparente soluzione di continuità dal già, ampiamente, frequentato songbook younghiano, per quello di un altro canadese doc, Bruce Cockburn, rendendo omaggio al compianto Warren Zevon, arrivando ad includere “nuovi” songwriter quali Chris Eckman e Robert Fisher. È il pregevole lavoro in fase di arrangiamento, operato dai Rusties medesimi, a legare brani sulla carta diversi tra loro, grazie ad un comune fil rouge, un impasto folk rock elettroacustico debitore tanto delle sonorità settantiane, a stelle e strisce, quanto della più pura tradizione cantautorale nostrana. Arrangiamenti che traggono ulteriore beneficio da una registrazione in presa diretta, avvenuta in quel di Grosseto, all'Ortostudio, sotto la supervisione attenta di Filippo Gatti, dalla quale si avverte lo sforzo collettivo di un quintetto forse mai così coeso e conscio dei propri mezzi espressivi. E se l'intrecciarsi delle corde delle due chitarre, acustica ed elettrica, affidate alle capaci mani dei succitati Grompi e Ardenghi, è da sempre uno dei tratti distintivi del "rusties sound", notevoli sono gli apporti strumentali delle tastiere di Massimo Piccinelli e del violino dell'ospite Jada Salem (loro vecchia conoscenza, avendo già preso parte alle sedute di registrazione di Move Along), ad arricchire armonicamente il preciso, costante pulsare di una sezione ritmica del tutto rinnovata, composta da Fulvio Monieri al basso e Filippo Acquaviva alla batteria, ma già dimostratasi perfettamente integrata nell'economia sonora collettiva. Ad emergere, in modo preponderante, è tuttavia la sensibilità narrativa di Grompi, autentico artigiano della parola, capace di uscire, più che, vincitore dall'ardua impresa di piegare all'italico idioma le liriche originarie. Se forse è scontato appurare come il quintetto si trovi perfettamente a proprio agio nel rivisitare e riadattare la, già familiare, opera del proprio padre putativo, con una grintosa Powderfinger, tramutatisi in Dalla Polvere E Dal Fuoco, il cui testo è un libero adattamento della, precedente, traduzione ad opera di Mimmo Locasciulli e Cereno Diotallevi (all'anagrafe Francesco De Gregori), e l'etereo incanto de La Signora, in origine The Old Laughing Lady, qui avvolta da una parsoniana aura cosmic country, è quando essi rivolgono la propria attenzione verso altri autori, che giungono le più inaspettate quanto gradite sorprese. A tal proposito come non menzionare una cockburniana Pacing The Cage dalla sommessa fragilità acustica, qui diventata Dentro La Gabbia, tra il metallico risuonare di un glockenspiel, e il flessuoso muoversi dell'archetto sul violino della Salem. Non manca tuttavia quella fisicità febbrile anch'essa caratterizzante, da sempre, l'operato rustisiano, e qui affiorante in modo deciso, nella furia elettrica di Se Solo Avessi Un Lanciarazzi (If I Had A Rocket Launcher), ad enfatizzare ulteriormente le originarie, rabbiose liriche poste su carta dalla penna del medesimo Cockburn. E se la gemma martyniana Solid Air (Aria Solida) viene qui riproposta in una lisergica, rallentata versione forse più vicina alla California dei Crazy Horse, che alla Scozia del suo autore, ad impressionare, per resa finale, è la riedizione di The Logical Song dei Supertramp, in una sussultante Canzone Logica sintomatica dell'onnivora fame musicale dei bergamaschi. Ottimo anche il trattamento riservato tanto a Ombre All'Orizzonte (Ghost Along The Borders), facente parte dell'ultimo, stupendo parto solista di Chris Eckman, Harney County, in una dimessa ballata dalla paradisiaca grana melodica, quanto a Le Intenzioni Di Harrison Hayes, la The Trials Of Harrison Hayes di fisheriana memoria, ideale anello di congiunzione tra l'alternative country dei Willard Grant Conspiracy e la pregnanza letteraria del cantautorato nostrano. Da brividi lungo la schiena è poi la conclusiva, elegiaca Tienimi Con Te, ovvero Keep Me In Your Heart, uno degli ultimi, strazianti brani incisi da Warren Zevon prima di dare l'addio a questo crudele mondo. Una riuscita scommessa quella effettuata dai Rusties con Dalla Polvere E Dal Fuoco, in un primo tentativo di riappacificazione lirica con l'italico idioma, perpetrato grazie all'aiuto di spartiti “amici” e che, visti i considerevoli risultati ottenuti, ci auguriamo sia solamente un preambolo ad un nuovo, autografo percorso autoriale in italiano.
David Mayfield - Strangers
(Pubblicato su Rootshighway)
Con un dna musicale composto, in larga parte, da geni country ed old time, eredità dei propri genitori, David Mayfield, dopo aver contribuito alla realizzazione degli album solisti della sorella, Jessica Lea, e aver preso parte all'esperienza d'assieme, targata Cadillac Sky, si è infine, anch'egli, incamminato lungo un percorso a proprio nome, giunto oggi alla sua terza, solitaria tappa. Se con l'omonimo, notevole esordio, e con l'autoprodotto, successore Good Man Down, intestati sì entrambi alla ragione collettiva David Mayfield Parade, ma a tutti gli effetti suoi parti "autonomi", il nostro aveva saputo guadagnarsi il consenso della critica, con l'odierno Strangers, non solo replica a quanto di buono mostrato in precedenza, ma al contempo sembra, ancor più, ritagliarsi una propria oasi felice nell'affollato universo indie folk. A questo ha senza dubbio giovato l'accasarsi presso la Compass Records, meglio conosciuta quale "Nashville's hippest alternative label", e habitat sonoro ideale per lo sfaccettato songwriting del barbuto musicista originario di Kent, Ohio. Sarebbe infatti riduttivo, alla luce della cangiante policromia degli spartiti mayfieldiani, relegare quest'ultimo all'interno dei confini del suddetto indie folk, entro i quali egli certo si diverte a scorrazzare a più riprese, non precludendosi tuttavia estemporanee sortite in altri territori sonori, tanto arcaici quanto di più moderna fattura. Non deve stupire, pertanto, il trovarsi di fronte ad episodi sonori in apparenza diversi tra loro, frutto dello scrivere maturo di un songwriter ben conscio della molteplicità del proprio talento autoriale. A sostegno di tale tesi troviamo l'opener Caution, rimandante ai Decemberists invaghiti delle verdi brughiere irlandesi, o In Your Eyes, quasi un fiddle tune old time nel suo incipit per sola voce e violino, prima che l'ingresso di un'agile sezione ritmica infonda al tutto una più incalzante sfrontatezza country grass. E se l'influenza dell'amico Seth Avett, su consiglio del quale Mayfield ha iniziato a comporre, è quantomai palese in ballate di umbratile mestizia quali The One I Hate e la deliziosa My First Big Lie And How I Got Out Of It, quest'ultimo, e il di lui fratello, vengono nuovamente chiamati in causa nella sommessa dichiarazione d'intenti di una struggente The Man I'm Trying To Be. Notevoli sono, d'altra parte, brani ove ad rifulgere è, invece, il personale tocco della penna mayfieldiana, vedasi una Ohio (It's Fake) capace di coniugare trattenuta introspezione folkie ed urticanti, sintetiche trame moderniste, o la baraonda percussiva di una forsennata Rain On My Parade. Pertanto, se siete avvezzi alle sonorità poc'anzi descritte, Strangers è un album che non dovrebbe mancare nella vostra personale discografia, mentre, al contrario, se appartenete al novero di coloro che storcono il naso di fronte al movimento indie folk tutto, vi consiglio di lasciar da parte, per una volta, il vostro integralismo musicale e porvi, senza preconcetti, all'ascolto, in quanto si definirà pure, a mio avviso peccando sin troppo in modestia, un semplice intrattenitore David Mayfield, ma è altresì dotato di un songwriting dalla disarmante freschezza.

La Bestia Carenne - Catacatassc
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
Nella calura delle notti estive, ai fortunati abitanti delle più sperdute zone rurali, capita spesso di imbattersi, estasiati, nel baluginare intermittente delle lucciole. Nei bei tempi andati, un'usanza, in voga specie tra i bambini, era quella di rinchiudere questi piccoli insetti in angusti barattoli, per poterne ammirare appieno il luminoso splendore, e dove, annichilite da questa velata forma di sadismo infantile, esse trovavano, spesso e purtroppo, la morte. Una pratica alla quale pare essersi dedicata, con maggior fortuna e minor cattiveria, la Bestia Carenne, antropomorfa creatura musicale partorita dalle menti di quattro giovani ragazzi campani. L'immaginifica belva partenopea non solo è riuscita, infatti, a mantenere in vita le lucciole aggirantesi nella propria terra natia (catacatascc' in dialetto napoletano significa, per l'appunto lucciole) ma ha saputo mantenerne in vita le pulsanti luminescenze, irradiando grazie ad esse i propri spartiti, già abilmente assiepati di parole e note dall'egregio lavorio, tanto in fase di scrittura quanto di arrangiamento, dei suoi quattro “domatori”. Un ventaglio sonoro ampio e variegato, in un continuo, animalesco dimenarsi tra la ricercatezza testuale del cantautorato nostrano e l'arrembante vitalità ritmica del miglior folk tricolore, per poi imbastardire il tutto con zingaresche arie tzigane, elettriche lacerazioni bluesy e squarci di bucolica ariosità country. L'intrecciarsi elettroacustico, tra le più disparate corde, è senza dubbio uno dei tratti peculiari del modus operandi compositivo dei nostri, come ben si evince dalla, strumentale, title track posta in apertura, o in Il Sapore, dall'ebbro incedere caposseliano, nonché pregno di rimandi alla tradizione melodica partenopea. Una napoletanità mai mascherata, anzi orgogliosamente enfatizzata, tanto, per l'appunto, a livello armonico, quanto lirico, con un cantato, in italiano, ma dalla marcata inflessione dialettale, a rinsaldare, ulteriormente, il legame con l'amata terra natia. E se una delle possenti zampe della Bestia Carenne è saldamente affondata proprio nel suolo campano, l'altra pare invece, dopo una titanica falcata, essersi infine poggiata sul suolo americano, esplorandone i più rurali recessi sonori come in una Transkei, country fino al midollo, impreziosita dai vellutati ricami di lap steel e violino, o nella conclusiva Cadillac, sporcata, invece, dalla polverosa malia del border messicano, passando per il livido sussurrare di Uno Studente e Vysotskji, notevole esempio della maturità autoriale dei nostri, a ricordare il De Gregori dalla più cieca infatuazione dylaniana. Al succitato Capossela, e alle sue stralunate digressioni alcoliche si rifà, nuovamente, Billy Il Mezzo Marinaio, sghembo valzer d'antan, dal retrogusto dixieland, mentre le notturne suggestioni latine di Le Cose Che Desideri, con il mantice della fisarmonica a regalare barlumi di pura poesia, sembrano voler ricalcare, al contrario, l'animo più “classicamente” cantautorale del musicista originario di Hannover. Un primo “ruggito” forte e sicuro, quindi, quello della Bestia Carenne, foraggiata e cresciuta con amore e dedizione ed oggi capace di dar vita ad un lavoro di affascinante luminosità, tra fulgidi momenti di debordante impulsività folk ed ombrosi episodi di più trattenuto raccoglimento, simile proprio a quella delle lucciole alle quali si è ispirata.

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