(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
Dopo averlo visto seviziare e martoriare la propria chitarra, in ogni modo umanamente (e non) possibile, tra le fila dei Wilco, l'arrivo di Nels Cline in quel di Savona era un evento al quale non si poteva mancare. Se infatti nella formazione guidata da Jeff Tweedy il cinquantanovenne chitarrista losangelino rappresenta, insieme al puro genio ritmico di Glenn Kotche, l'estrema ala avanguardista, è altresì nella propria “avventura” solista che le sue pulsioni sperimentali paiono non aver freno alcuno, come ben evidenziato da una nutrita serie di album, volti ad abbattere le opprimenti barriere stilistiche e di genere, alla ricerca di una utopica free form, linfa vitale anche del progetto a nome The Nels Cline Singers. Ed è proprio con quest'ultimo che il nostro si presenta sul palco del Raindogs, con una formazione, per giunta, a dir poco stellare. Ad accompagnarlo infatti vi è una sezione ritmica da cardiopalma, ovvero Trevor Dunn (Melvins, Fantomas e Mr. Bungle) al basso elettrico e contrabbasso, e Scott Amendola alla batteria ai quali si è aggregato lo stupefacente percussionista brasiliano Cyro Baptista (John Zorn, Trey Anastasio Band). Un quartetto che per coesione e poliedricità suona al pari di un collettivo dall'organico ben più ampio, grazie anche ad un approccio democratico e universalistico alla materia musicale dove non esistono leader, ed ogni singolo contributo strumentale ha eguale importanza all'interno dell'economia sonora generale. Una democraticità che si avverte fin da un primo impatto visivo, con la strumentazione dei quattro posta in linea, ad occupare nella sua totalità il palco, eliminando, in tal modo, lo scomodo ruolo di frontman, quasi a voler disconoscere una ragione sociale non del tutto veritiera già a priori, vista anche la mancanza di un vero e proprio cantante. Sono infatti gli strumenti a far sentire la propria viva e forte “voce” in un caleidoscopico turbinio di suoni, rumori e pattern ritmici, tra improvvise accensioni rockiste, sulfuree aperture free jazz, tribalismi afro rock e calienti ritmi latini. Una bulimica, inarrestabile emorragia sonora che fluisce inesauribile, in un continuo affastellarsi di inebrianti spunti strumentali, univocamente condotti verso una magistrale costruzione del climax, volta ad irretire gli astanti in una trascendente e vertiginosa digressione avanguardista. E' tuttavia il (free) jazz, nella sua più libera, per l'appunto, accezione, la materia prima che i quattro si “divertono” a plasmare a propria immagine e somiglianza, dando vita ad ispirati episodi quali Thurston County, dove la pulizia del fraseggio montgomeryiano, sulla sei corde, di Cline incontra le dronanti rifrazioni moderniste dei loop “gestiti” di Amendola, e il primitivo percuotere del nutrito armamentario percussivo ad uso esclusivo di Baptista. Quest'ultimo è a dir poco impressionante nella sua varietà poliritmica, districandosi tra i più disparati “oggetti”, siano esse canoniche percussioni che bizzarre e personali ideazioni (vedasi a tal proposito il palloncino sgonfiato vicino al microfono o una catena sbattuta con violenza su un povero, inerte timpano, ndr), senza tralasciare la “semplice” pulsione ritmica di un sostenuto handclapping. Trevor Dunn, dal canto suo, si conferma essere bassista di “un altro pianeta” sia quando le sue dita si muovono veloci sul proprio basso elettrico, sia quando, una volta imbracciato il contrabbasso, fa scorrere l'archetto sulle spesse corde di quest'ultimo. E poi ovviamente vi è Cline, uno spettacolo nello spettacolo, banale a dirlo ma è così. Un uomo per il quale la chitarra non è un mero, semplice strumento, ma bensì un'insostituibile appendice del proprio corpo. Ed è annichilente, a tratti, quando dà libero sfogo alle proprie voglie rumoriste, come al contempo capace di creare autentiche oasi di mistica fluttuazione armonica, quali la suite in cui vengono “accoppiate” Respira e Macroscopic, entrambe contenute nell'ultimo lavoro in studio Macroscope, o i lidi pacificati di una The Angel Of Angels dalla psichedelica rarefazione. E se l'ondivaga Forge, nel suo flemmatico, continuo divenire viene squassata nel finale da traumatizzanti esplosioni elettriche, un vero e proprio assalto all'arma bianca caratterizza invece Cause For Concern, valvola ultima di sfogo della furia iconoclasta dei quattro prima di abbandonare il palco, lasciando il pubblico, letteralmente, a bocca aperta. Il quartetto ricompare, tuttavia, poco dopo, con Cline che esordisce con un sornione “Surprise, we're back!”, prima di guidare i propri compagni in un'ultima, spasmodica esecuzione d'assieme sulle funamboliche note di Canales Cabeza, in quello che potrebbe essere, a tutti gli effetti, considerato uno dei migliori esempi del Cline-pensiero, dove pura improvvisazione e calibrato scrivere pentagrammatico vanno a braccetto, conducendoci in inesplorati territori musicali, attraverso un immaginifico sondare sonoro che avremmo voluto non finisse mai.
Digging into the music
Album, concerti e molto altro
sabato 28 marzo 2015
Steve Wynn @ Raindogs - Savona
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
Tra gli alfieri del Paisley Underground con i seminali Dream Syndicate (con i quali, tra l'altro è tornato, proprio in questo periodo, in studio di registrazione, dopo la fortunata reunion sui palchi di qualche anno fa), e fautore di una carriera solista altrettanto prolifica (sia a proprio nome che in complicità con i Miracle 3), senza contare una nutrita serie di progetti paralleli passati e presenti (da Danny & Dusty in compagnia dell'amico Dan Stuart, al Baseball Project, passando per i Gutterball) Steve Wynn ha vissuto, intensamente, più di trent'anni in musica, spinto da un'inesauribile vena creativa e da una voglia di condivisione mai doma. Un tipo affabile ed alla mano il nostro, forse non del tutto conscio dello status di culto che, giustamente, aleggia intorno alla propria persona. Non vi è spocchia, infatti, nel suo modo di rapportarsi con l'audience che si trova davanti, ma bensì una sentita e partecipe colloquialità, lasciando al contempo ampio spazio alle proprie canzoni. Un songbook in grado, tra l'altro, di allineare un'infinita serie di piccoli capolavori partoriti tanto ai tempi del “Sindacato del sogno” quanto negli anni da solista, ed oggi esplorato con il nuovo, inedito Solo! Electric Tour, emblematico fin dalla nomenclatura, ovvero una lunga serie di appuntamenti live nel corso dei quali avrà come unica compagna di palco la propria sei corde elettrica, che per l'appunto fa bella mostra di sé (insieme ad un'altra “sorella”, ndr) anche questa sera sul piccolo palco del Raindogs. Alle 22:30 un sorridente Wynn si palesa sul palco, in elegante completo grigio e camicia bianca e nera, accolto dagli applausi da un nutrito pubblico di fedeli “discepoli” che lo seguono fin dagli antichi fasti della sua “band madre” e che in più di un'occasione farà sentire, con urla e cori, la propria presenza tanto da divenire alla fine, anch'esso, parte attiva del concerto. Colpito da tanto calore e affetto Wynn non mancherà di ripagare gli astanti riportando alla luce autentiche gemme del proprio songwriting, a cominciare da quelle appartenenti al periodo “sindacale” come l'iniziale Tell Me When It's Over, tramutatasi, per l'occasione, in una scura ballata folk dalle tinte noir, con tanto di armonica younghiana; sciorinando poi, in rapida successione, una caustica My Old Haunts ed una rallentata, seducente When You Smile, fino a veri propri anthem quali Boston e l'inquieta bellezza di una Burn da brividi alla schiena (era sull'immarcescibile Medicine Show), accolte da una vera e propria ovazione collettiva. Medesima accoglienza viene tuttavia riservata al repertorio wynniano post-Sindacato, qui ben rappresentato da ispirati episodi quali le elucubrazioni esistenziali di Sustain (dal suo picco autoriale da solista, Here Comes The Miracle, ndr), le cupe ombrosità di Something To Remember Me By e le implorazioni sentimentali di Love Me Anyway, quest'ultima frutto delle sessioni di registrazioni slovene di Crossing Dragon Bridge (in compagnia di Chris Eckman, ndr). Ben rappresentati sono anche i lavori “condivisi” con i Miracle 3, con le deflagrazioni elettriche di una lacerante California Style e la distorcente furia rockista di Cloud Splitter. E se non manca qualche gustoso “fuori programma”, come l'omaggio a Lou Reed, “uno morto troppo giovane” (parole dello stesso Wynn, ndr), con una commovente Coney Island Baby, si ritorna invece ai “giorni del vino e delle rose” con la tagliente aggressività del brano omonimo, rivisitata attraverso un urticante rifferama diddleyiano, per poi concludere il set con un nuovo omaggio, questa volta a Blind Lemon Jefferson, di una See That My Grave Is Kept Clean, più vicina tuttavia ai putridi bassifondi della New York reediana che al caldo torrido texano. Non fa neanche in tempo a ritornare sul palco il nostro, per i bis, che subito viene accolto da una richiesta (“Merritville! Do you remember it, Steve?!”) prontamente soddisfatta, ed in modo a dir poco eccellente aggiungerei, per poi proseguire con una palpitante Whatever You Please, ed un'ultima gradita sorpresa, la rilettura di Stage Fright della leggendaria Band, quasi a voler esorcizzare, a fine concerto, la paura di salire, da solo su di un palcoscenico. E meno male che il nostro ci aveva presentato, banalmente, la serata come “It's like a folk show but electric”, peccando come sempre, vista anche la vibrante intensità emozionale della performance odierna, fin troppo in modestia, la stessa con la quale, con un sorriso, disegna alla fine del concerto, l'instant alternate cover di Solo! Electric Vol.I, album stampato, proprio per celebrare questo tour, in edizione limitata, e personalizzabile sul momento, in un'estemporanea quanto divertita ultima performance artistica wynniana.
Tra gli alfieri del Paisley Underground con i seminali Dream Syndicate (con i quali, tra l'altro è tornato, proprio in questo periodo, in studio di registrazione, dopo la fortunata reunion sui palchi di qualche anno fa), e fautore di una carriera solista altrettanto prolifica (sia a proprio nome che in complicità con i Miracle 3), senza contare una nutrita serie di progetti paralleli passati e presenti (da Danny & Dusty in compagnia dell'amico Dan Stuart, al Baseball Project, passando per i Gutterball) Steve Wynn ha vissuto, intensamente, più di trent'anni in musica, spinto da un'inesauribile vena creativa e da una voglia di condivisione mai doma. Un tipo affabile ed alla mano il nostro, forse non del tutto conscio dello status di culto che, giustamente, aleggia intorno alla propria persona. Non vi è spocchia, infatti, nel suo modo di rapportarsi con l'audience che si trova davanti, ma bensì una sentita e partecipe colloquialità, lasciando al contempo ampio spazio alle proprie canzoni. Un songbook in grado, tra l'altro, di allineare un'infinita serie di piccoli capolavori partoriti tanto ai tempi del “Sindacato del sogno” quanto negli anni da solista, ed oggi esplorato con il nuovo, inedito Solo! Electric Tour, emblematico fin dalla nomenclatura, ovvero una lunga serie di appuntamenti live nel corso dei quali avrà come unica compagna di palco la propria sei corde elettrica, che per l'appunto fa bella mostra di sé (insieme ad un'altra “sorella”, ndr) anche questa sera sul piccolo palco del Raindogs. Alle 22:30 un sorridente Wynn si palesa sul palco, in elegante completo grigio e camicia bianca e nera, accolto dagli applausi da un nutrito pubblico di fedeli “discepoli” che lo seguono fin dagli antichi fasti della sua “band madre” e che in più di un'occasione farà sentire, con urla e cori, la propria presenza tanto da divenire alla fine, anch'esso, parte attiva del concerto. Colpito da tanto calore e affetto Wynn non mancherà di ripagare gli astanti riportando alla luce autentiche gemme del proprio songwriting, a cominciare da quelle appartenenti al periodo “sindacale” come l'iniziale Tell Me When It's Over, tramutatasi, per l'occasione, in una scura ballata folk dalle tinte noir, con tanto di armonica younghiana; sciorinando poi, in rapida successione, una caustica My Old Haunts ed una rallentata, seducente When You Smile, fino a veri propri anthem quali Boston e l'inquieta bellezza di una Burn da brividi alla schiena (era sull'immarcescibile Medicine Show), accolte da una vera e propria ovazione collettiva. Medesima accoglienza viene tuttavia riservata al repertorio wynniano post-Sindacato, qui ben rappresentato da ispirati episodi quali le elucubrazioni esistenziali di Sustain (dal suo picco autoriale da solista, Here Comes The Miracle, ndr), le cupe ombrosità di Something To Remember Me By e le implorazioni sentimentali di Love Me Anyway, quest'ultima frutto delle sessioni di registrazioni slovene di Crossing Dragon Bridge (in compagnia di Chris Eckman, ndr). Ben rappresentati sono anche i lavori “condivisi” con i Miracle 3, con le deflagrazioni elettriche di una lacerante California Style e la distorcente furia rockista di Cloud Splitter. E se non manca qualche gustoso “fuori programma”, come l'omaggio a Lou Reed, “uno morto troppo giovane” (parole dello stesso Wynn, ndr), con una commovente Coney Island Baby, si ritorna invece ai “giorni del vino e delle rose” con la tagliente aggressività del brano omonimo, rivisitata attraverso un urticante rifferama diddleyiano, per poi concludere il set con un nuovo omaggio, questa volta a Blind Lemon Jefferson, di una See That My Grave Is Kept Clean, più vicina tuttavia ai putridi bassifondi della New York reediana che al caldo torrido texano. Non fa neanche in tempo a ritornare sul palco il nostro, per i bis, che subito viene accolto da una richiesta (“Merritville! Do you remember it, Steve?!”) prontamente soddisfatta, ed in modo a dir poco eccellente aggiungerei, per poi proseguire con una palpitante Whatever You Please, ed un'ultima gradita sorpresa, la rilettura di Stage Fright della leggendaria Band, quasi a voler esorcizzare, a fine concerto, la paura di salire, da solo su di un palcoscenico. E meno male che il nostro ci aveva presentato, banalmente, la serata come “It's like a folk show but electric”, peccando come sempre, vista anche la vibrante intensità emozionale della performance odierna, fin troppo in modestia, la stessa con la quale, con un sorriso, disegna alla fine del concerto, l'instant alternate cover di Solo! Electric Vol.I, album stampato, proprio per celebrare questo tour, in edizione limitata, e personalizzabile sul momento, in un'estemporanea quanto divertita ultima performance artistica wynniana.
Musée Mécanique - From shores of sleep
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
A sei anni di distanza dal loro notevole debutto, Hold This Ghost, i Musée Mécanique sembrano con il nuovo, e ben più ambizioso, From Shores Of Sleep, voler ulteriormente estendere le già ampie maglie strumentali della propria intrigante proposta sonora. La “creatura” partorita dalle menti dei due songwriters Micah Rabwin e Sean Ogilvie decide infatti di “imbarcarsi” in un immaginifico viaggio per mare, che dalle “sponde del sonno” li porterà a navigare tra l'immensità spumeggiante delle inesplorate acque marine. Ed è proprio l'acqua, con il suo ammaliante sciabordare, ad essere immagine centrale intorno alla quale si sviluppa l'opera in esame. Un continuum musico-narrativo strumentalmente complesso ed articolato, con partiture a tratti di stampo orchestrale, quello approntato dai nostri, ricordante le lunghe suite di progressiva memoria. Barocchismi che si fondono tuttavia con l'arcana purezza melodica del folk, resa in questo frangente ancor più evocativa da enfatiche armonizzazioni vocali, dando vita ad un personale impasto sonoro figlio tanto della ciclicità delle partiture schumanniane che degli echi neo folk dell'odierna Portland, città dalla quale i nostri provengono. Si viene in tal modo lambiti dalle ondulazioni melodiche di brani quali The Open Sea, il cui scheletro armonico si poggia sull'esile, insistito picking di una chitarra acustica, attorniato da un caleidoscopico ventaglio dei più differenti spunti strumentali, tra un soffiare mariachi memore della lezione dei Calexico e le melodie sospese delle Ridge Mountains delle “Volpi di Velluto”; o nel marziale svolgersi di una Cast In The Brine, che pare anch'essa provenire dal sommesso songwriting pecknoldiano. Vena autoriale, quella del duo Rabwin-Ogilvie, che non manca di mostrarsi in tutta la sua maturità espressiva, in magistrali episodi quali una Castle Walls, che non avrebbe sfigurato, con i suoi incroci vocali rimandanti a Crosby, Stills e Nash, ed una dilatata aura armonica in bilico tra musica classica e liquida psichedelia floyidiana, nei dischi a nome Jonathan Wilson; o la cinematica poesia di una paradisiaca Along The Shore, a parere di chi scrive il vertice compositivo dell'intero lavoro. Un album che si chiude sulle quiete note di The Shaker's Cask, magnifica nel suo riuscire ad unire il melanconico afflato cameristico di una piccola sezione di legni ed ottoni, con l'arpeggiare gentile delle corde acustiche e il chiesastico bordone di un organo a canne. L'onirico navigare del quintetto (oltre ai già citati Rabwin e Ogilvie fanno parte della formazione “titolare” anche il batterista Matthew Berger, il “one-man brass section” John Whaley e il polistrumentista Brian Perez, ai quali va a sommarsi una nutrita schiera di ospiti) ha saputo riportare nella natia Portland autentiche, piccole gemme dalla rilucente purezza, scovate in quella che ci auguriamo possa essere solo la prima di molte, future, esplorazioni oceaniche.
A sei anni di distanza dal loro notevole debutto, Hold This Ghost, i Musée Mécanique sembrano con il nuovo, e ben più ambizioso, From Shores Of Sleep, voler ulteriormente estendere le già ampie maglie strumentali della propria intrigante proposta sonora. La “creatura” partorita dalle menti dei due songwriters Micah Rabwin e Sean Ogilvie decide infatti di “imbarcarsi” in un immaginifico viaggio per mare, che dalle “sponde del sonno” li porterà a navigare tra l'immensità spumeggiante delle inesplorate acque marine. Ed è proprio l'acqua, con il suo ammaliante sciabordare, ad essere immagine centrale intorno alla quale si sviluppa l'opera in esame. Un continuum musico-narrativo strumentalmente complesso ed articolato, con partiture a tratti di stampo orchestrale, quello approntato dai nostri, ricordante le lunghe suite di progressiva memoria. Barocchismi che si fondono tuttavia con l'arcana purezza melodica del folk, resa in questo frangente ancor più evocativa da enfatiche armonizzazioni vocali, dando vita ad un personale impasto sonoro figlio tanto della ciclicità delle partiture schumanniane che degli echi neo folk dell'odierna Portland, città dalla quale i nostri provengono. Si viene in tal modo lambiti dalle ondulazioni melodiche di brani quali The Open Sea, il cui scheletro armonico si poggia sull'esile, insistito picking di una chitarra acustica, attorniato da un caleidoscopico ventaglio dei più differenti spunti strumentali, tra un soffiare mariachi memore della lezione dei Calexico e le melodie sospese delle Ridge Mountains delle “Volpi di Velluto”; o nel marziale svolgersi di una Cast In The Brine, che pare anch'essa provenire dal sommesso songwriting pecknoldiano. Vena autoriale, quella del duo Rabwin-Ogilvie, che non manca di mostrarsi in tutta la sua maturità espressiva, in magistrali episodi quali una Castle Walls, che non avrebbe sfigurato, con i suoi incroci vocali rimandanti a Crosby, Stills e Nash, ed una dilatata aura armonica in bilico tra musica classica e liquida psichedelia floyidiana, nei dischi a nome Jonathan Wilson; o la cinematica poesia di una paradisiaca Along The Shore, a parere di chi scrive il vertice compositivo dell'intero lavoro. Un album che si chiude sulle quiete note di The Shaker's Cask, magnifica nel suo riuscire ad unire il melanconico afflato cameristico di una piccola sezione di legni ed ottoni, con l'arpeggiare gentile delle corde acustiche e il chiesastico bordone di un organo a canne. L'onirico navigare del quintetto (oltre ai già citati Rabwin e Ogilvie fanno parte della formazione “titolare” anche il batterista Matthew Berger, il “one-man brass section” John Whaley e il polistrumentista Brian Perez, ai quali va a sommarsi una nutrita schiera di ospiti) ha saputo riportare nella natia Portland autentiche, piccole gemme dalla rilucente purezza, scovate in quella che ci auguriamo possa essere solo la prima di molte, future, esplorazioni oceaniche.
The Decemberists @ Magazzini Generali - Milano
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
«We know, we know, we belong to ya. We know you built your lives around us. And would we change? We had to change some. We know, we know we belong to ya. We know you threw your arms around us in the hopes we wouldn't change but we had to change some. You know, to belong to you... », si presenta così Colin Meloy sul palco dei Magazzini Generali, intonando, in solitario, le prime strofe di The Singer Addresses His Audience, traccia d'apertura dell'ultima fatica discografica dei “suoi” Decemberists. Una sorta di lettera aperta ai propri fan; un timido confessare la propria volontà di cambiare, musicalmente e non, pur essendo ben consci delle speranze e delle aspettative riposte in loro dai fan medesimi, ed al contempo quasi scusandosi, ma specificando che, in fondo, «we did it all for you». Un empatico legame quello tra il combo di Portland e l'audience italiana che non solo non sembra essere stato intaccato dai paventati “cambiamenti”, così come da una lontananza dai palchi nostrani durata la bellezza di otto anni, ma anzi, a giudicare dalla folla festante che ha invaso questa sera il club milanese, risulta essere più saldo che mai. D'altronde i nostri, fin dagli esordi, ci hanno abituato alle più folli digressioni soniche, complice anche l'eclettismo di una penna, quella meloyiana, capace di tratteggiare con uguale maestria piccoli acquerelli dalle seppiate tinte Americana e dalle agresti tonalità del folk albionico, così come schizofrenici scarabocchi indie rock e sontuosi barocchismi progressive, in una personalissima cifra stilistica in costante mutamento, ben rappresentata, questa sera, da una set list capace di attingere da tutta la loro, ormai copiosa, discografia. Se la succitata The Singer Addresses His Audience, nel suo incontenibile crescendo strumentale, una volta che sul palco fanno la loro comparsa anche i “compagni d'armi” del barbuto Meloy, è stato incipit pressoché perfetto per catturare l'attenzione della platea, la toccata e fuga nella Athens dei Rem con una spigliata Calamity Song e la giga “riveduta e corretta” d'una irresistibile Rox In The Box, la conquistano definitivamente. E se Colin Meloy, anacronisticamente abbigliato come un personaggio di un libro di Edgar Allan Poe, si dimostra improbabile quanto al contempo carismatico frontman, privo di sbavature è l'apporto strumentale datogli dal resto della band, sia che si tratti del tumultuoso rollio ritmico della batteria di John Moen e del basso/contrabbasso di Nat Query, quanto del pigiare sui tasti dell'organo e della fisarmonica di Jenny Conlee e del versatile picking sulle corde, elettriche ed acustiche, di Chris Funk, senza tuttavia dimenticare il sostegno vocale delle due brave coriste. Una coralità d'esecuzione fondamentale nel ricreare, anche in concerto, le spesso intricate partiture decemberiste, come nella suggestiva triade A Bower Scene, Won't Want For Love e The Rake's Song, estrapolate dall'ambiziosa “opera rock” The Hazards Of Love, in una ipnotica spirale tra magniloquenza prog, riverberi spettrali e l'esasperata, acida lentezza di un rifferama sabbathiano, con Meloy a dirigere (sulle note della medesima The Rake's Song) il pubblico, dividendolo per sezioni, in uno strampalato battimani collettivo, per poi sorridere, divertito, nel constatare come di fatto abbiano applaudito ad una storia sanguinaria e crudele (ovvero quella, narrata nella canzone medesima, di un libertino che si macchia dell'assassinio dei suoi tre figli, ndr). I testi criptici e spesso cruenti sono d'altronde uno dei “marchi di fabbrica” dell'occhialuto songwriter, e del suo raccontare dickensiano, dai grotteschi tratti gotici, dal quando prendono vita atemporali personaggi contorti e deviati. Scrittura che da un'enigmatica astrusità narrativa riesce tuttavia a passare con disinvoltura ad un'adamantina purezza melodica elettroacustica, come testimoniato dalla contagiosa frenesia remmiana di Make You Better, dalla stranita mestizia di Better Not Wake The Baby e da un piccolo gioiello di soavità folk quale The Wrong Year, tutte provenienti dal recente What A Terribile World, What A Beautiful World, per poi raggiungere il proprio apice nella splendida riproposizione di Down By The Water, una delle, molte, perle scaturite dai solchi tradizionalisti di The King Is Dead. Una polverosa patina Americana che avvolge anche la baldanza antimilitarista di 16 Military Wives prima di far ritorno a più ardimentose trame strumentali con il sussultare armonico e gli umorali saliscendi di una dilatata suite comprendente i tre “episodi” di The Crane Wife, per poi concludere il set con l'ascensionale ballata A Beginning Song. Invocati a più riprese, i nostri tornano tuttavia sul palco per deliziarci, un'ultima volta, con l'incanto folk di una June Hymn dalla dylaniana fragilità acustica, e la rissosa storia di vendette tra marinai dell'ubriaco sea chanty The Mariner's Revenge Song, ultimo, ilare siparietto comico in cui uno statuario Chris Funk si improvvisa addirittura modello, aizzando, con il suo sfilare, il pubblico ad urlare “come una balena”, ovvero come il maestoso cetaceo che inghiottirà, infine, l'immaginario galeone decemberista, in un'apoteosi che vedrà tutti i Magazzini Generali sperticarsi in urla ed applausi, ampiamente meritati, per i cinque di Portland. Che altro aggiungere? Beh, per dirla alla decemberista...what A Beautiful Concert!
SET LIST
The Singer Addresses His Audience
Calamity Song
Rox In The Box
Here I Dreamt I Was an Architect
Better Not Wake The Baby
The Wrong Year
The Gymnast, High Above Ground
A Bower Scene
Won’t Want for Love (Margaret in the Taiga)
The Rake’s Song
Down By The Water
Make You Better
16 Military Wives
The Crane Wife 1, 2 &3
A Beginning Song
ENCORE
June Hymn
The Mariner's Revenge Song
SET LIST
The Singer Addresses His Audience
Calamity Song
Rox In The Box
Here I Dreamt I Was an Architect
Better Not Wake The Baby
The Wrong Year
The Gymnast, High Above Ground
A Bower Scene
Won’t Want for Love (Margaret in the Taiga)
The Rake’s Song
Down By The Water
Make You Better
16 Military Wives
The Crane Wife 1, 2 &3
A Beginning Song
ENCORE
June Hymn
The Mariner's Revenge Song
sabato 21 marzo 2015
Distance, Light & Sky - Casting Nets
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
Se si dovesse ricercare, in ambito musicale, un moderno epigono del mitologico Re Mida, la scelta, perlomeno per chi scrive, ricadrebbe senza remora alcuna su Chris Eckman. Dal suo scranno in quel di Lubiana, il nostro sembra infatti, e con disarmante naturalezza, riuscire a tramutare in oro qualsiasi produzione sonora nella quale, direttamente o indirettamente, è coinvolto. Basterebbe portare ad esempio, tralasciando volutamente la straordinaria epopea a nome Walkabouts, i suoi più recenti parti artistici, siano essi pubblicati sotto una ragione sociale condivisa (vedasi a tal proposito il progetto multi-etnico Dirtmusic, ndr) che a proprio nome (lo splendido Harney County dello scorso anno), senza dimenticare l'altrettanto prezioso lavoro, in cabina di regia, svolto dal nostro in più di una produzione pubblicata sotto il marchio Glitterhouse e Glitterbeat (etichette tra l'altro facenti capo ad egli stesso, ndr). Non esula da tale bontà creativa e qualitativa anche il nuovo collettivo progetto a nome Distance, Light & Sky, in compartecipazione con la songwriter anglo-olandese Chantal Acda (con anch'essa all'attivo due notevoli lavori a proprio nome, ndr) e il percussionista Eric Thielemans (membro del collettivo EARR, oltre che già partner ritmico della Acda medesima, ndr). Un lavoro di scrittura a tre, quello alla base di Casting Nets, loro prima opera d'assieme, attraverso il quale personalità musicali sulla carta profondamente diverse, tanto per passate esperienze, quanto per background, si combinano tra loro, dando vita ad una corale unione d'intenti, in cui l'umbratile songwriting di Eckman si sposa, idealmente, al più etereo tratto della penna della Acda, con la baritonale, scura voce del primo a duettare con il flebile, seducente fascino della vocalità della seconda. Un suggestivo inseguirsi e incontrarsi di fonemi su di un dimesso fondale sonoro intessuto dal risuonare delle corde, acustiche ed elettriche, delle chitarre, dal picchiettare sui tasti bianchi e neri di un pianoforte e da ben centellinati artifici percussivi, il tutto sotto l'attenta supervisione di Phill Brown (già dietro ai cursori per l'immarcescibile Spirit Of Eden dei Talk Talk, giusto per citarne uno). Un flusso sonoro dalla vibrante scarnificazione elettroacustica, in un parco gioco d'incastri vocale e strumentale, quindi, come si evince sin dall'iniziale Son, ballata dalla drammatica fragilità, o nel crepuscolare incanto della title track, figlia illegittima della desolazione desertica del succitato Harney County. E se il tratto peculiare dell'intero lavoro rimane il congiungersi tra le due voci, anche quando queste ultime guadagnano solitariamente il “proscenio”, regalano momenti di notevole impatto emozionale, come nella deliziosa catarsi folk di This Place, affidata in toto all'incantevole voce della Acda o nell'oscurità straziante di una drammatica Western Avenue, complice il magnetico talking eckmaniano, per poi tornare a sublimarsi, in un nuovo fondersi vocale, nella purezza lirica di Still On The Loose. È da assaporare lentamente Casting Nets, gustandolo nota dopo nota, parola dopo parola, lasciandosi catturare dalle “reti soniche” abilmente gettate da tre musicisti i cui singoli potenziali uniti in un inedito, comune sentire hanno saputo dar vita ad un lavoro d'indubbio spessore.
Se si dovesse ricercare, in ambito musicale, un moderno epigono del mitologico Re Mida, la scelta, perlomeno per chi scrive, ricadrebbe senza remora alcuna su Chris Eckman. Dal suo scranno in quel di Lubiana, il nostro sembra infatti, e con disarmante naturalezza, riuscire a tramutare in oro qualsiasi produzione sonora nella quale, direttamente o indirettamente, è coinvolto. Basterebbe portare ad esempio, tralasciando volutamente la straordinaria epopea a nome Walkabouts, i suoi più recenti parti artistici, siano essi pubblicati sotto una ragione sociale condivisa (vedasi a tal proposito il progetto multi-etnico Dirtmusic, ndr) che a proprio nome (lo splendido Harney County dello scorso anno), senza dimenticare l'altrettanto prezioso lavoro, in cabina di regia, svolto dal nostro in più di una produzione pubblicata sotto il marchio Glitterhouse e Glitterbeat (etichette tra l'altro facenti capo ad egli stesso, ndr). Non esula da tale bontà creativa e qualitativa anche il nuovo collettivo progetto a nome Distance, Light & Sky, in compartecipazione con la songwriter anglo-olandese Chantal Acda (con anch'essa all'attivo due notevoli lavori a proprio nome, ndr) e il percussionista Eric Thielemans (membro del collettivo EARR, oltre che già partner ritmico della Acda medesima, ndr). Un lavoro di scrittura a tre, quello alla base di Casting Nets, loro prima opera d'assieme, attraverso il quale personalità musicali sulla carta profondamente diverse, tanto per passate esperienze, quanto per background, si combinano tra loro, dando vita ad una corale unione d'intenti, in cui l'umbratile songwriting di Eckman si sposa, idealmente, al più etereo tratto della penna della Acda, con la baritonale, scura voce del primo a duettare con il flebile, seducente fascino della vocalità della seconda. Un suggestivo inseguirsi e incontrarsi di fonemi su di un dimesso fondale sonoro intessuto dal risuonare delle corde, acustiche ed elettriche, delle chitarre, dal picchiettare sui tasti bianchi e neri di un pianoforte e da ben centellinati artifici percussivi, il tutto sotto l'attenta supervisione di Phill Brown (già dietro ai cursori per l'immarcescibile Spirit Of Eden dei Talk Talk, giusto per citarne uno). Un flusso sonoro dalla vibrante scarnificazione elettroacustica, in un parco gioco d'incastri vocale e strumentale, quindi, come si evince sin dall'iniziale Son, ballata dalla drammatica fragilità, o nel crepuscolare incanto della title track, figlia illegittima della desolazione desertica del succitato Harney County. E se il tratto peculiare dell'intero lavoro rimane il congiungersi tra le due voci, anche quando queste ultime guadagnano solitariamente il “proscenio”, regalano momenti di notevole impatto emozionale, come nella deliziosa catarsi folk di This Place, affidata in toto all'incantevole voce della Acda o nell'oscurità straziante di una drammatica Western Avenue, complice il magnetico talking eckmaniano, per poi tornare a sublimarsi, in un nuovo fondersi vocale, nella purezza lirica di Still On The Loose. È da assaporare lentamente Casting Nets, gustandolo nota dopo nota, parola dopo parola, lasciandosi catturare dalle “reti soniche” abilmente gettate da tre musicisti i cui singoli potenziali uniti in un inedito, comune sentire hanno saputo dar vita ad un lavoro d'indubbio spessore.
The New Students - When The West Wind Blows
(Pubblicato su Rootshighway)
Secondo esame per le "matricole" di stanza a Brooklyn, con "un piede nel Ventunesimo Secolo, ed un altro poggiato saldamente nella musica tradizionale americana d'ascendenza bianca", come loro stessi si definiscono. Tradizione folk che ritroviamo, oggi, anche in When The West Wind Blows. Complici un songwriting a "quattro mani", ovvero quelle dei polistrumentisti Justin Flagg e Matthew Gelfer, e una strumentazione prevalentemente acustica, sebbene rinvigorita da una canonica sezione ritmica; debitrici entrambi nei confronti della lezione impartita proprio dalla suddetta. Una caleidoscopica, fluida progressione di note quindi, capace di dar vita a puntati, spediti bluegrass quali l'opener Bar Room Blues e Bushman's Holiday, come a malinconici country tune (una nelsoniana Pictures), passando per evanescenti momenti di morbidezza acustica, quali la rarefatta The West Wind o una Joanna dalla pastorale confessionalità folk. Tratto peculiare dei nostri è, tuttavia, l'intrecciarsi armonico delle voci, come si può evincere nella cangiante solarità calypso di Lovely Day, nell'afflato cameristico di Winter, con la presenza, aggiuntiva, di una piccola sezione d'archi, o nella conclusiva, palpitante coralità di Calvary Hill. Un album senza dubbio gradevole, al contempo contraddistinto da alcuni buoni spunti autoriali, anche se la strada per "laurearsi" presso l'antica e prestigiosa "University of American Folk Music", è, per le nostre "matricole", ancora lunga.
Secondo esame per le "matricole" di stanza a Brooklyn, con "un piede nel Ventunesimo Secolo, ed un altro poggiato saldamente nella musica tradizionale americana d'ascendenza bianca", come loro stessi si definiscono. Tradizione folk che ritroviamo, oggi, anche in When The West Wind Blows. Complici un songwriting a "quattro mani", ovvero quelle dei polistrumentisti Justin Flagg e Matthew Gelfer, e una strumentazione prevalentemente acustica, sebbene rinvigorita da una canonica sezione ritmica; debitrici entrambi nei confronti della lezione impartita proprio dalla suddetta. Una caleidoscopica, fluida progressione di note quindi, capace di dar vita a puntati, spediti bluegrass quali l'opener Bar Room Blues e Bushman's Holiday, come a malinconici country tune (una nelsoniana Pictures), passando per evanescenti momenti di morbidezza acustica, quali la rarefatta The West Wind o una Joanna dalla pastorale confessionalità folk. Tratto peculiare dei nostri è, tuttavia, l'intrecciarsi armonico delle voci, come si può evincere nella cangiante solarità calypso di Lovely Day, nell'afflato cameristico di Winter, con la presenza, aggiuntiva, di una piccola sezione d'archi, o nella conclusiva, palpitante coralità di Calvary Hill. Un album senza dubbio gradevole, al contempo contraddistinto da alcuni buoni spunti autoriali, anche se la strada per "laurearsi" presso l'antica e prestigiosa "University of American Folk Music", è, per le nostre "matricole", ancora lunga.
Police Dog Hogan - Westward Ho!
(Pubblicato su Rootshighway)
"A british way to Americana", ecco descritto, in poche ma esaustive parole, il modus operandi degli inglesi Police Dog Hogan, "dopolavoristi" di lusso (il banjoista Tim Dowling, per esempio, è apprezzato columnist del Guardian), giunti, con l'odierno Westward Ho!, prodotto dal bassista della Oysterband, Al Scott, alla loro terza prova sulla lunga distanza. La nutrita compagine londinese, guidata dal cantante e chitarrista James Studholme, non ha mai nascosto, fin dai suoi esordi, una profonda infatuazione per sonorità d'ascendenza Americana, seppur rivedute e corrette, all'ombra amica della Union Jack, in una personale formula, suggestivamente denominata urban bluegrass, equamente composta da rustica sgangheratezza country, sprazzi melodici figli del folk albionico, ed incontenibile furoreggiare irish. Ne sono esempi lampanti tanto le frenetiche West Country Boy e From The Land Of Miracles, ovvero i Pogues a spasso tra gli Appalachi, quanto l'istrionico ciondolare country di un'irresistibile One Size Fits All. Non mancano tuttavia episodi di maggior raccoglimento, vedasi a tal proposito una dimessa Buffalo, o l'acustico pizzicare grassy delle corde in Ethan Frome, mentre l'atipica Home, in compartecipazione con i Platform 7, band formata da ex carcerati, bizzarro quanto intrigante folk-rap, rimane tra gli episodi più riusciti di un lavoro tanto genuino quanto convincente.
"A british way to Americana", ecco descritto, in poche ma esaustive parole, il modus operandi degli inglesi Police Dog Hogan, "dopolavoristi" di lusso (il banjoista Tim Dowling, per esempio, è apprezzato columnist del Guardian), giunti, con l'odierno Westward Ho!, prodotto dal bassista della Oysterband, Al Scott, alla loro terza prova sulla lunga distanza. La nutrita compagine londinese, guidata dal cantante e chitarrista James Studholme, non ha mai nascosto, fin dai suoi esordi, una profonda infatuazione per sonorità d'ascendenza Americana, seppur rivedute e corrette, all'ombra amica della Union Jack, in una personale formula, suggestivamente denominata urban bluegrass, equamente composta da rustica sgangheratezza country, sprazzi melodici figli del folk albionico, ed incontenibile furoreggiare irish. Ne sono esempi lampanti tanto le frenetiche West Country Boy e From The Land Of Miracles, ovvero i Pogues a spasso tra gli Appalachi, quanto l'istrionico ciondolare country di un'irresistibile One Size Fits All. Non mancano tuttavia episodi di maggior raccoglimento, vedasi a tal proposito una dimessa Buffalo, o l'acustico pizzicare grassy delle corde in Ethan Frome, mentre l'atipica Home, in compartecipazione con i Platform 7, band formata da ex carcerati, bizzarro quanto intrigante folk-rap, rimane tra gli episodi più riusciti di un lavoro tanto genuino quanto convincente.
Veronica and the Red Wine Serenaders - The Mexican Dress
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
«Old stories for modern times», recava ben stampigliato in copertina la precedente release, di coppia, firmata Veronica Sbergia e Max De Bernardi, quasi a voler descrivere, fin dal titolo ed in modo più che esaustivo, quanto contenuto tra i propri solchi. Storie antiche, per l'appunto, tra tribolazioni, sofferenze, patemi amorosi e disastri naturali, economici e sociali, dalle origini incerte, perse tra i meandri più oscuri del tempo. Storie tramandate oralmente fino ai giorni nostri, di generazione in generazione, spesso con l'accompagnamento di uno scalcinato strumento a corde o di una vetusta quanto improbabile percussione, e figlie dirette della cultura afroamericana. Un patrimonio culturale al quale Veronica Sbergia e i suoi Red Wine Serenaders si sono sempre accostati con profondo rispetto, sin dal loro omonimo esordio, passando per il “collettivista” D.O.C., fino all'opera a due poc'anzi citata, facendo propri vecchi tradizionali, d'ascendenza nera e bianca, mostrando non solo una notevole conoscenza di una materia sonora “straniera”, quanto al contempo ragguardevoli abilità tecniche ed interpretative. Un percorso non scevro di riconoscimenti e soddisfazioni, tanto che i nostri hanno più volte attraversato, con i propri strumenti al seguito, l'Oceano, quasi a voler “riportare a casa” una musica indissolubilmente legata al territorio statunitense. Un legame, quello con il suolo americano, oggi ancor più saldo, visto che la loro ultima fatica discografica ha visto la luce, in parte proprio aldilà del medesimo Oceano Atlantico. Frutto di una proficua raccolta fonti, tramite Musicraiser, The Mexican Dress è stato infatti posto su nastro in quel di Seattle, per poi essere completato presso i nostrani studi SuonoVivo. Risultato di queste registrazioni “transatlantiche” è uno dei lavori più maturi e riusciti tra quelli pubblicati fino ad oggi dai nostri, in un nuovo, atemporale viaggio in musica tra ragtime, folk, pre-war blues, early jazz, spiritual e inedite reminiscenze irish, nell'America di inizio Novecento. Se Veronica Sbergia si conferma, una volta di più, quale frontwoman dalla comprovata, ammaliante bravura, non da meno sono i suoi due “compagni” ovvero Max De Bernardi (suo compagno, per davvero, nella vita), alle corde più diverse e Dario Polerani al contrabbasso, pressoché fondamentali nel costruire arcaiche trame acustiche, alle quali contribuiscono, in aggiunta, gli apporti strumentali di alcuni, selezionati, ospiti, tra i quali spicca, per peso specifico, Denny Hall. E se abbiamo già decantato le lodi delle abilità interpretative dell'italico trio, in The Mexican Dress, trovano sfogo, per la prima volta, anche inediti sbocchi autoriali, concretizzatisi in alcuni, riusciti, episodi autografi, quali la title track, delizioso, movimentato swing, ideale per “scacciare i blues danzando”, o la strascicata folk ballad Crying Time, con la seducente voce della Sbergia a conquistare anima e cuore degli ascoltatori. De Bernardi, uno dei pochi “pizzicatori” di corde nostrani per il quale l'appellativo di virtuoso è quantomai calzante, dal canto suo pone la propria firma sul solitario strumentale The Resurrection Of The Honey Badger, con il bottleneck, nel suo metallico scivolare, ad omaggiare il leggendario Blind Blake, quanto a ricordare il più ispirato, e tradizionalista, Ryland Cooder. Omaggio, quello a figure mai dimenticate dell'epopea musicale afroamericana, che coinvolge anche Victoria Spivey, della quale viene ripresa Dope Head Blues, supplichevole blues datato 1927, e Bo Carter, in una Banana In Your Fruitbasket affidata alla ruvida voce di De Bernardi, passando per la riproposizione, in una versione a dir poco corale, del tradizionale Paul And Silas, il cui arrangiamento chitarristico, di stampo ragtime, vuole invece celebrare l'opera del mai dimenticato “Reverendo” Gary Davis. Degni di menzione sono anche i brani portati in dote dalla penna del summenzionato Hall, in particolare la splendida Curse The Day, dove si respira l'aria della verde Irlanda, complice anche il mantico comprimersi di una uillean pipes, ad aprire nuovi sentieri verso, prima mai battuti, territori sonori, e sicuramente, visti i risultati qui ottenuti, da esplorare nuovamente in futuro. Chiude l'album una ghost track d'eccezione, Baby Please Loan Me Your Heart, sconosciuto brano del banjoista Papa Charlie Jackson, nel quale De Bernardi imbraccia, sulle orme di quest'ultimo, un banjo a sei corde, duettando magistralmente con il clarinetto di Joel Teep. Un “vestito messicano” quello intessuto, con cura, da musicisti sì nostrani ma dalla caratura internazionale, le cui tonalità d'antan non solo non temono l'inesorabile trascorrere del tempo, ma altresì, grazie al loro cangiante patchwork cromatico-musicale paiono essere adatte per tutte le stagioni, presenti e future.
«Old stories for modern times», recava ben stampigliato in copertina la precedente release, di coppia, firmata Veronica Sbergia e Max De Bernardi, quasi a voler descrivere, fin dal titolo ed in modo più che esaustivo, quanto contenuto tra i propri solchi. Storie antiche, per l'appunto, tra tribolazioni, sofferenze, patemi amorosi e disastri naturali, economici e sociali, dalle origini incerte, perse tra i meandri più oscuri del tempo. Storie tramandate oralmente fino ai giorni nostri, di generazione in generazione, spesso con l'accompagnamento di uno scalcinato strumento a corde o di una vetusta quanto improbabile percussione, e figlie dirette della cultura afroamericana. Un patrimonio culturale al quale Veronica Sbergia e i suoi Red Wine Serenaders si sono sempre accostati con profondo rispetto, sin dal loro omonimo esordio, passando per il “collettivista” D.O.C., fino all'opera a due poc'anzi citata, facendo propri vecchi tradizionali, d'ascendenza nera e bianca, mostrando non solo una notevole conoscenza di una materia sonora “straniera”, quanto al contempo ragguardevoli abilità tecniche ed interpretative. Un percorso non scevro di riconoscimenti e soddisfazioni, tanto che i nostri hanno più volte attraversato, con i propri strumenti al seguito, l'Oceano, quasi a voler “riportare a casa” una musica indissolubilmente legata al territorio statunitense. Un legame, quello con il suolo americano, oggi ancor più saldo, visto che la loro ultima fatica discografica ha visto la luce, in parte proprio aldilà del medesimo Oceano Atlantico. Frutto di una proficua raccolta fonti, tramite Musicraiser, The Mexican Dress è stato infatti posto su nastro in quel di Seattle, per poi essere completato presso i nostrani studi SuonoVivo. Risultato di queste registrazioni “transatlantiche” è uno dei lavori più maturi e riusciti tra quelli pubblicati fino ad oggi dai nostri, in un nuovo, atemporale viaggio in musica tra ragtime, folk, pre-war blues, early jazz, spiritual e inedite reminiscenze irish, nell'America di inizio Novecento. Se Veronica Sbergia si conferma, una volta di più, quale frontwoman dalla comprovata, ammaliante bravura, non da meno sono i suoi due “compagni” ovvero Max De Bernardi (suo compagno, per davvero, nella vita), alle corde più diverse e Dario Polerani al contrabbasso, pressoché fondamentali nel costruire arcaiche trame acustiche, alle quali contribuiscono, in aggiunta, gli apporti strumentali di alcuni, selezionati, ospiti, tra i quali spicca, per peso specifico, Denny Hall. E se abbiamo già decantato le lodi delle abilità interpretative dell'italico trio, in The Mexican Dress, trovano sfogo, per la prima volta, anche inediti sbocchi autoriali, concretizzatisi in alcuni, riusciti, episodi autografi, quali la title track, delizioso, movimentato swing, ideale per “scacciare i blues danzando”, o la strascicata folk ballad Crying Time, con la seducente voce della Sbergia a conquistare anima e cuore degli ascoltatori. De Bernardi, uno dei pochi “pizzicatori” di corde nostrani per il quale l'appellativo di virtuoso è quantomai calzante, dal canto suo pone la propria firma sul solitario strumentale The Resurrection Of The Honey Badger, con il bottleneck, nel suo metallico scivolare, ad omaggiare il leggendario Blind Blake, quanto a ricordare il più ispirato, e tradizionalista, Ryland Cooder. Omaggio, quello a figure mai dimenticate dell'epopea musicale afroamericana, che coinvolge anche Victoria Spivey, della quale viene ripresa Dope Head Blues, supplichevole blues datato 1927, e Bo Carter, in una Banana In Your Fruitbasket affidata alla ruvida voce di De Bernardi, passando per la riproposizione, in una versione a dir poco corale, del tradizionale Paul And Silas, il cui arrangiamento chitarristico, di stampo ragtime, vuole invece celebrare l'opera del mai dimenticato “Reverendo” Gary Davis. Degni di menzione sono anche i brani portati in dote dalla penna del summenzionato Hall, in particolare la splendida Curse The Day, dove si respira l'aria della verde Irlanda, complice anche il mantico comprimersi di una uillean pipes, ad aprire nuovi sentieri verso, prima mai battuti, territori sonori, e sicuramente, visti i risultati qui ottenuti, da esplorare nuovamente in futuro. Chiude l'album una ghost track d'eccezione, Baby Please Loan Me Your Heart, sconosciuto brano del banjoista Papa Charlie Jackson, nel quale De Bernardi imbraccia, sulle orme di quest'ultimo, un banjo a sei corde, duettando magistralmente con il clarinetto di Joel Teep. Un “vestito messicano” quello intessuto, con cura, da musicisti sì nostrani ma dalla caratura internazionale, le cui tonalità d'antan non solo non temono l'inesorabile trascorrere del tempo, ma altresì, grazie al loro cangiante patchwork cromatico-musicale paiono essere adatte per tutte le stagioni, presenti e future.
sabato 28 febbraio 2015
Pops Staples - Don't lose this
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
Sulla statura artistica e sull'importanza del suo operato, musicale e non, ci sarebbe da scrivere un libro, d'altronde Roebuck “Pops” Staples sembra essere stato, fin dalla giovane età, un predestinato. Nato e cresciuto nella piantagione di cotone di Winona, Mississippi, inizia presto il suo approccio la chitarra, strumento che non avrebbe abbandonato fino alla sua morte, per poi ritrovarsi a suonare al fianco di autentiche leggende quali Charlie Patton, Son House, e Robert Johnson. Trasferitosi negli anni Cinquanta, con la propria famiglia, in quel di Chicago, insieme ad essa inizia ad esibirsi nelle chiese della città, per poi arrivare, nel 1952, ad apporre la propria firma su di un primo contratto discografico. Ha quindi inizio l'avventura “familiare” a nome The Staple Singers, della quale egli è fondamentale elemento catalizzatore, non solo grazie alla maestria del proprio picking chitarristico, quanto per una voce dalle vellutate tonalità soul, alla quale si uniscono, armonizzandosi, quelle dei figli Pervis, Cleotha, Yvonne e Mavis. Amico fraterno di Martin Luther King Jr., Pops ha sempre cercato di veicolare attraverso la propria musica un messaggio di amore, speranza e giustizia sociale, in contrapposizione alle barbare violenze razziste dell'America bianca. Canzoni nelle quali gospel, folk, blues e soul si fondevano in un tutt'uno, andando a scandire ritmicamente i passi delle freedom march, lungo l'irta e difficile strada dell'emancipazione nera. E proprio come epitaffio di questa straordinaria avventura familiare era stato originariamente concepito Don't Lose This. Si tratta infatti di canzoni, incise dallo stesso Pops in compagnia delle proprie figlie, nel 1999, giusto un anno prima che egli lasciasse questo mondo, e purtroppo mai completate, anzi rinchiuse in un cassetto per oltre quindici anni. Nastri custoditi gelosamente da Mavis, la quale, oggi, rispettando la promessa fatta al padre, ovvero quella di non abbandonare queste registrazioni all'oblio ma di far in modo che tutti potessero ascoltarle, decide che è finalmente giunto il momento di pubblicarle. Al suo fianco, in questa impresa, troviamo un suo “vecchio” amico, quel Jeff Tweedy avente rivestito già parte attiva nei suoi ultimi, meravigliosi lavori solisti, e qui nuovamente chiamato in veste di produttore. Ma si sa, dalla produzione al contributo in prima persona il passo è breve, ed ecco quindi che troviamo lo stesso Jeff, al basso, e suo figlio Spencer, alla batteria. Da una parte abbiamo pertanto lo scheletro originario dei brani, con la voce e la chitarra di Pops, alle quali sono stati aggiunti, oltre a quelli già presenti, nuovi apporti vocali della stessa Mavis, mentre dall'altra troviamo, per l'appunto, la sezione ritmica “Tweedy & figlio”, con l'ulteriore presenza, in alcuni brani, dell'organo di Scott Ligon. Apporti quest'ultimi mai invero invasivi, volti anzi a preservare, su volere dello stesso Tweedy, la primigenie, scarne registrazioni. Ciò si evince in particolar modo in brani dove queste ultime sono lasciate per lo più immacolate, se non per qualche sparuto, nuovo contributo vocale, nelle quali ad emergere sono per l'appunto la voce e la chitarra elettrica di Pops, come nella purezza adamantina di Sweet Home (commoventi i dialoghi tra padre e figlia lasciati alla fine della stessa) e della quasi omonima Better Home, entrambe in duetto con Mavis, o altresì una solitaria Nobody's Fault But Mine, dalla lancinante sofferenza bluesy. Notevoli sono, tuttavia, anche i brani “d'assieme”, come il fiero declamare soul di Love On My Side, affidato alla voce solista di Mavis, o una sublime Friendship, a rimembrare l'universalistico, speranzoso messaggio staplesiano. Negli enfatici incroci vocali dell'opener Somebody Was Watching, così come nelle sincopi funk di un altrettanto energica No News Is Good News, maggiormente si avverte, invece, il contributo percussivo tweediano, volto ad irrobustire il rapimento mistico derivato dal dilatato riverberare della chitarra elettrica. D'una bellezza cristallina è, d'altro canto, Will The Circle Be Unbroken, già registrata dagli Staple Singers ai loro esordi discografici, e qui riproposta in una nuova versione a “chiudere un cerchio” aperto quasi cinquanta anni fa, essendo questa la prima canzone che Pops insegnò ai propri figli. La dylaniana Gotta Serve Somebody, unico brano non appartenente alle primitive registrazioni, viene qui accluso in una prorompente rivisitazione live dalla chiesastica solennità devozionale. L'opera è quindi compiuta, il volere del vecchio musicista è stato rispettato e come la stessa Mavis spiega; «I’m so happy; my job is done, I’ve done what I was supposed to do... Pops is smiling and I can just see that twinkle in his eye. That was Pops Staples; he lived the life he sang about». Mai parole avrebbero potuto essere più esaurienti, e sono sicuro che da lassù Pops starà davvero sorridendo soddisfatto, ringraziando la figlia per quest'ultimo, partecipato atto d'amore.
Sulla statura artistica e sull'importanza del suo operato, musicale e non, ci sarebbe da scrivere un libro, d'altronde Roebuck “Pops” Staples sembra essere stato, fin dalla giovane età, un predestinato. Nato e cresciuto nella piantagione di cotone di Winona, Mississippi, inizia presto il suo approccio la chitarra, strumento che non avrebbe abbandonato fino alla sua morte, per poi ritrovarsi a suonare al fianco di autentiche leggende quali Charlie Patton, Son House, e Robert Johnson. Trasferitosi negli anni Cinquanta, con la propria famiglia, in quel di Chicago, insieme ad essa inizia ad esibirsi nelle chiese della città, per poi arrivare, nel 1952, ad apporre la propria firma su di un primo contratto discografico. Ha quindi inizio l'avventura “familiare” a nome The Staple Singers, della quale egli è fondamentale elemento catalizzatore, non solo grazie alla maestria del proprio picking chitarristico, quanto per una voce dalle vellutate tonalità soul, alla quale si uniscono, armonizzandosi, quelle dei figli Pervis, Cleotha, Yvonne e Mavis. Amico fraterno di Martin Luther King Jr., Pops ha sempre cercato di veicolare attraverso la propria musica un messaggio di amore, speranza e giustizia sociale, in contrapposizione alle barbare violenze razziste dell'America bianca. Canzoni nelle quali gospel, folk, blues e soul si fondevano in un tutt'uno, andando a scandire ritmicamente i passi delle freedom march, lungo l'irta e difficile strada dell'emancipazione nera. E proprio come epitaffio di questa straordinaria avventura familiare era stato originariamente concepito Don't Lose This. Si tratta infatti di canzoni, incise dallo stesso Pops in compagnia delle proprie figlie, nel 1999, giusto un anno prima che egli lasciasse questo mondo, e purtroppo mai completate, anzi rinchiuse in un cassetto per oltre quindici anni. Nastri custoditi gelosamente da Mavis, la quale, oggi, rispettando la promessa fatta al padre, ovvero quella di non abbandonare queste registrazioni all'oblio ma di far in modo che tutti potessero ascoltarle, decide che è finalmente giunto il momento di pubblicarle. Al suo fianco, in questa impresa, troviamo un suo “vecchio” amico, quel Jeff Tweedy avente rivestito già parte attiva nei suoi ultimi, meravigliosi lavori solisti, e qui nuovamente chiamato in veste di produttore. Ma si sa, dalla produzione al contributo in prima persona il passo è breve, ed ecco quindi che troviamo lo stesso Jeff, al basso, e suo figlio Spencer, alla batteria. Da una parte abbiamo pertanto lo scheletro originario dei brani, con la voce e la chitarra di Pops, alle quali sono stati aggiunti, oltre a quelli già presenti, nuovi apporti vocali della stessa Mavis, mentre dall'altra troviamo, per l'appunto, la sezione ritmica “Tweedy & figlio”, con l'ulteriore presenza, in alcuni brani, dell'organo di Scott Ligon. Apporti quest'ultimi mai invero invasivi, volti anzi a preservare, su volere dello stesso Tweedy, la primigenie, scarne registrazioni. Ciò si evince in particolar modo in brani dove queste ultime sono lasciate per lo più immacolate, se non per qualche sparuto, nuovo contributo vocale, nelle quali ad emergere sono per l'appunto la voce e la chitarra elettrica di Pops, come nella purezza adamantina di Sweet Home (commoventi i dialoghi tra padre e figlia lasciati alla fine della stessa) e della quasi omonima Better Home, entrambe in duetto con Mavis, o altresì una solitaria Nobody's Fault But Mine, dalla lancinante sofferenza bluesy. Notevoli sono, tuttavia, anche i brani “d'assieme”, come il fiero declamare soul di Love On My Side, affidato alla voce solista di Mavis, o una sublime Friendship, a rimembrare l'universalistico, speranzoso messaggio staplesiano. Negli enfatici incroci vocali dell'opener Somebody Was Watching, così come nelle sincopi funk di un altrettanto energica No News Is Good News, maggiormente si avverte, invece, il contributo percussivo tweediano, volto ad irrobustire il rapimento mistico derivato dal dilatato riverberare della chitarra elettrica. D'una bellezza cristallina è, d'altro canto, Will The Circle Be Unbroken, già registrata dagli Staple Singers ai loro esordi discografici, e qui riproposta in una nuova versione a “chiudere un cerchio” aperto quasi cinquanta anni fa, essendo questa la prima canzone che Pops insegnò ai propri figli. La dylaniana Gotta Serve Somebody, unico brano non appartenente alle primitive registrazioni, viene qui accluso in una prorompente rivisitazione live dalla chiesastica solennità devozionale. L'opera è quindi compiuta, il volere del vecchio musicista è stato rispettato e come la stessa Mavis spiega; «I’m so happy; my job is done, I’ve done what I was supposed to do... Pops is smiling and I can just see that twinkle in his eye. That was Pops Staples; he lived the life he sang about». Mai parole avrebbero potuto essere più esaurienti, e sono sicuro che da lassù Pops starà davvero sorridendo soddisfatto, ringraziando la figlia per quest'ultimo, partecipato atto d'amore.
sabato 21 febbraio 2015
Steve Earle and the Dukes - Terraplane
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
«I's up this mornin', ah, blues walkin' like a man; I's up this mornin', ah, blues walkin' like a man; worried blues give me your right hand», cantava un tormentato Robert Johnson in uno dei brani, Preachin' Blues per l'esattezza, impressi su nastro in una stanza del Gunter Hotel di San Antonio, nella sua seconda, leggendaria seduta di registrazione, datata 27 novembre 1936. Afflizione bluesy che sembra oggi pervadere anche il, già tormentato, animo di Steve Earle, tanto da spingerlo a dare alle stampe l'odierno Terraplane, quasi a voler, in tal modo, esorcizzare i propri personali “blue devils”. Con un titolo mutuato, come già avvenuto per lo stesso Johnson (vedasi l'autografa Terraplane Blues incisa anch'essa presso il medesimo hotel texano, seppur in una seduta di registrazione di quattro giorni antecedente quella poc'anzi menzionata, ndr), da un modello automobilistico prodotto dalla Hudson Motor Company, il nuovo parto discografico del songwriter texano può essere altresì letto come un sentito omaggio al blues stesso. Composto per un terzo, durante il proprio, recente solo tour europeo, Terraplane è stato infine registrato, sotto la supervisione di R.S. Fields e Ray Kennedy, in quel di Nashville, presso gli House of Blues Studios, avvalendosi del prezioso contributo strumentale dei fidi Dukes, ovvero la dirompente sezione ritmica formata dalla batteria di Will Rigby e dal basso di Kelly Looney, la sferzante chitarra elettrica di Chris Masterson e il violino, della di lui moglie, Eleanor Whitemore. Undici le composizioni approntate da Earle per l'occasione, ad abbracciare, secondo una personale visione della materia sonora in esame, le differenti accezioni territoriali e stilistiche da sempre tratto peculiare del blues medesimo. Si passa pertanto, geograficamente, dal Lone Star State, con il torrido Texas blues marchiato Sam “Lightining” Hopkins dell'iniziale Baby Baby Baby (Baby), resa ancor più rutilante dal grasso soffiare di un'armonica distorta, e della sincopata The Usual Time, alle paludi della Louisiana, finendo invischiati nel putrido swampy sound di You're The Best Lover That I Ever Had e di una pervicace Go Go Boots Are Back, entrambe parenti illegittime delle stagnanti ipnosi sonore di Tony Joe White. Reiterare ipnotico che ritroviamo nello spiritato sproloquiare di The Tennessee Kid, che non avrebbe sfigurato tra i solchi di Hooker'n'Heat, mirabile incontro tra l'ossessivo battere percussivo hookeriano e il nerboruto boogie dei Canned Heat di Henry Vestine. Non mancano tuttavia episodi figli di più scarnificati arrangiamenti acustici, come la swingata Ain't Nobody's Daddy Now, o l'erratico vagabondare country blues di Gamblin' Blues, mentre ben riconoscibile è la firma rootsy della penna del nostro tanto in una Baby's Just As Mean As Me, in duetto con Eleanor Whitemore, quasi una outtake della precedente release The Low Highway, con, sullo sfondo, l'ombra dell'amato Hank Williams a sporcarne di “bianco” i pentagrammi, o il febbricitante dimenarsi di un'epilettica Acquainted With The Wind, entrambe assimilabili ai canoni della “classica” produzione earliana, più che alla “negritudine” pervadente le altre tracce qui contenute. Blues tuttavia che torna protagonista prima con la slow ballad, dai sudisti echi staxiani, Better Off Alone, e infine con la conclusiva King Of Blues, martoriato shuffle dalla torrenziale furia elettrica. Un legame quello tra il barbuto texano e il blues che ha radici lontane e profonde, ed oggi trova finalmente viva testimonianza discografica con un lavoro, Terraplane, dalla penetrante, ruvida bellezza, alla cui realizzazione egli pensava da tempo, come peraltro ribadito nelle stesse liner notes; «For my part, I've only ever believed two things about the blues; one, that they are very democratic, the commonest of human experience, perhaps the only thing that we all truly share and two, that one day, when it was time, I would make this record».
«I's up this mornin', ah, blues walkin' like a man; I's up this mornin', ah, blues walkin' like a man; worried blues give me your right hand», cantava un tormentato Robert Johnson in uno dei brani, Preachin' Blues per l'esattezza, impressi su nastro in una stanza del Gunter Hotel di San Antonio, nella sua seconda, leggendaria seduta di registrazione, datata 27 novembre 1936. Afflizione bluesy che sembra oggi pervadere anche il, già tormentato, animo di Steve Earle, tanto da spingerlo a dare alle stampe l'odierno Terraplane, quasi a voler, in tal modo, esorcizzare i propri personali “blue devils”. Con un titolo mutuato, come già avvenuto per lo stesso Johnson (vedasi l'autografa Terraplane Blues incisa anch'essa presso il medesimo hotel texano, seppur in una seduta di registrazione di quattro giorni antecedente quella poc'anzi menzionata, ndr), da un modello automobilistico prodotto dalla Hudson Motor Company, il nuovo parto discografico del songwriter texano può essere altresì letto come un sentito omaggio al blues stesso. Composto per un terzo, durante il proprio, recente solo tour europeo, Terraplane è stato infine registrato, sotto la supervisione di R.S. Fields e Ray Kennedy, in quel di Nashville, presso gli House of Blues Studios, avvalendosi del prezioso contributo strumentale dei fidi Dukes, ovvero la dirompente sezione ritmica formata dalla batteria di Will Rigby e dal basso di Kelly Looney, la sferzante chitarra elettrica di Chris Masterson e il violino, della di lui moglie, Eleanor Whitemore. Undici le composizioni approntate da Earle per l'occasione, ad abbracciare, secondo una personale visione della materia sonora in esame, le differenti accezioni territoriali e stilistiche da sempre tratto peculiare del blues medesimo. Si passa pertanto, geograficamente, dal Lone Star State, con il torrido Texas blues marchiato Sam “Lightining” Hopkins dell'iniziale Baby Baby Baby (Baby), resa ancor più rutilante dal grasso soffiare di un'armonica distorta, e della sincopata The Usual Time, alle paludi della Louisiana, finendo invischiati nel putrido swampy sound di You're The Best Lover That I Ever Had e di una pervicace Go Go Boots Are Back, entrambe parenti illegittime delle stagnanti ipnosi sonore di Tony Joe White. Reiterare ipnotico che ritroviamo nello spiritato sproloquiare di The Tennessee Kid, che non avrebbe sfigurato tra i solchi di Hooker'n'Heat, mirabile incontro tra l'ossessivo battere percussivo hookeriano e il nerboruto boogie dei Canned Heat di Henry Vestine. Non mancano tuttavia episodi figli di più scarnificati arrangiamenti acustici, come la swingata Ain't Nobody's Daddy Now, o l'erratico vagabondare country blues di Gamblin' Blues, mentre ben riconoscibile è la firma rootsy della penna del nostro tanto in una Baby's Just As Mean As Me, in duetto con Eleanor Whitemore, quasi una outtake della precedente release The Low Highway, con, sullo sfondo, l'ombra dell'amato Hank Williams a sporcarne di “bianco” i pentagrammi, o il febbricitante dimenarsi di un'epilettica Acquainted With The Wind, entrambe assimilabili ai canoni della “classica” produzione earliana, più che alla “negritudine” pervadente le altre tracce qui contenute. Blues tuttavia che torna protagonista prima con la slow ballad, dai sudisti echi staxiani, Better Off Alone, e infine con la conclusiva King Of Blues, martoriato shuffle dalla torrenziale furia elettrica. Un legame quello tra il barbuto texano e il blues che ha radici lontane e profonde, ed oggi trova finalmente viva testimonianza discografica con un lavoro, Terraplane, dalla penetrante, ruvida bellezza, alla cui realizzazione egli pensava da tempo, come peraltro ribadito nelle stesse liner notes; «For my part, I've only ever believed two things about the blues; one, that they are very democratic, the commonest of human experience, perhaps the only thing that we all truly share and two, that one day, when it was time, I would make this record».
Boister - Your Wound is Your Crown
(Pubblicato su Rootshighway)
"Una voce scura e terrosa, che fa sembrare Tom Waits una donnicciola"; con queste parole il compianto Jim Dickinson descriveva Anne Watts, cantante, compositrice e de facto leader dei Boister. E di musica quel vecchio marpione se ne intendeva eccome, anche se tuttavia queste sperticate lodi possono forse sembrare di parte, visto che egli si era accomodato in cabina di regia per Some Moths Drink The Tears Of Elephants, precedente release proprio dell'ottetto di Baltimora. Un dubbio fugato, fortunatamente, fin dalle prime note del loro settimo sigillo discografico, Your Wound Is Your Crown, libero profluvio di armonie, battiti e parole, dove le composizioni, partendo dai confini sicuri della forma canzone, si aprono a dilatate improvvisazioni, in un costante turbinio sonoro di ardua catalogazione. Notturne e fumose divagazioni jazzistiche, sgangherato incedere bluesy beefheartiano, esotiche aperture verso suadenti melodie orientali e intricate trame canterburiane vanno ad affollare, infatti, i bulimici spartiti boisteriani, forgiando un sussultante tappeto musicale, sul quale spicca, nel suo intenso declamare, la voce della Watts, pregna tanto del pathos della più enfatica Patti Smith quanto delle grigie tonalità d'una malinconica Mary Gauthier. Non mancano tuttavia episodi interamente strumentali, ove maggiormente si avverte l'importanza dell'approccio free form alla base dell'economia sonora del collettivo, come nell'opener Emmeline (Prelude), per l'appunto un placido preludio, dal flemmatico svolgersi jazzy, o in una coltraniana Martillo, dove la parte del leone è affidata al fiati di John Dierker e di Craig Considine. Pare invece di assistere ad un reading della summenzionata Smith, accompagnata da una, neanche troppo, irreggimentata Magic Band, di beefheartiana memoria, in una Crown dal passo claudicante, così come torna alla mente la vocalità della Gauthier nell'enfatico svolgersi narrativo di Sycamore. Al contrario in 14 i nostri rivolgono la propria attenzione agli echi musicali della vecchia Albione, ed in particolare a quelli provenienti dalla Canterbury dei Soft Machine, coniugando psichedelia e jazz, in un impetuoso strumentale costruito su controtempi, stacchi, ripartenze e pindarici dialoghi fiatistici, per poi far "visita" alla shakespeariana Stratford-upon-Avon, rielaborando le bardiane liriche de La Tempesta, nella pianistica litania di una Yellow Sands dall'afflato cameristico. Il sincopato palpitare neworleansiano della conclusiva As The Ship Goes Down, con, ancora, più di un rimando vocale alla succitata Gauthier, chiude degnamente un album forse di non facile fruizione, necessitante altresì di un ascolto attento e partecipato per poterne comprendere appieno la variegata stratificazione. Forse la musica dei Boister non "eleverà o migliorerà la vostra vita", come profetizzato a suo tempo dallo stesso Dickinson, ma indubbiamente saprà dispensarvi momenti di rara, immaginifica suggestione.
"Una voce scura e terrosa, che fa sembrare Tom Waits una donnicciola"; con queste parole il compianto Jim Dickinson descriveva Anne Watts, cantante, compositrice e de facto leader dei Boister. E di musica quel vecchio marpione se ne intendeva eccome, anche se tuttavia queste sperticate lodi possono forse sembrare di parte, visto che egli si era accomodato in cabina di regia per Some Moths Drink The Tears Of Elephants, precedente release proprio dell'ottetto di Baltimora. Un dubbio fugato, fortunatamente, fin dalle prime note del loro settimo sigillo discografico, Your Wound Is Your Crown, libero profluvio di armonie, battiti e parole, dove le composizioni, partendo dai confini sicuri della forma canzone, si aprono a dilatate improvvisazioni, in un costante turbinio sonoro di ardua catalogazione. Notturne e fumose divagazioni jazzistiche, sgangherato incedere bluesy beefheartiano, esotiche aperture verso suadenti melodie orientali e intricate trame canterburiane vanno ad affollare, infatti, i bulimici spartiti boisteriani, forgiando un sussultante tappeto musicale, sul quale spicca, nel suo intenso declamare, la voce della Watts, pregna tanto del pathos della più enfatica Patti Smith quanto delle grigie tonalità d'una malinconica Mary Gauthier. Non mancano tuttavia episodi interamente strumentali, ove maggiormente si avverte l'importanza dell'approccio free form alla base dell'economia sonora del collettivo, come nell'opener Emmeline (Prelude), per l'appunto un placido preludio, dal flemmatico svolgersi jazzy, o in una coltraniana Martillo, dove la parte del leone è affidata al fiati di John Dierker e di Craig Considine. Pare invece di assistere ad un reading della summenzionata Smith, accompagnata da una, neanche troppo, irreggimentata Magic Band, di beefheartiana memoria, in una Crown dal passo claudicante, così come torna alla mente la vocalità della Gauthier nell'enfatico svolgersi narrativo di Sycamore. Al contrario in 14 i nostri rivolgono la propria attenzione agli echi musicali della vecchia Albione, ed in particolare a quelli provenienti dalla Canterbury dei Soft Machine, coniugando psichedelia e jazz, in un impetuoso strumentale costruito su controtempi, stacchi, ripartenze e pindarici dialoghi fiatistici, per poi far "visita" alla shakespeariana Stratford-upon-Avon, rielaborando le bardiane liriche de La Tempesta, nella pianistica litania di una Yellow Sands dall'afflato cameristico. Il sincopato palpitare neworleansiano della conclusiva As The Ship Goes Down, con, ancora, più di un rimando vocale alla succitata Gauthier, chiude degnamente un album forse di non facile fruizione, necessitante altresì di un ascolto attento e partecipato per poterne comprendere appieno la variegata stratificazione. Forse la musica dei Boister non "eleverà o migliorerà la vostra vita", come profetizzato a suo tempo dallo stesso Dickinson, ma indubbiamente saprà dispensarvi momenti di rara, immaginifica suggestione.
Rusties - Dalla polvere e dal fuoco
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
«La ruggine non dorme mai»; potremmo partire da questo assunto younghiano per descrivere la rocambolesca parabola artistica dei Rusties. Un accostamento quello con il vecchio canadese non del tutto casuale visto che i bergamaschi possono esserne considerati, musicalmente, i “figli illegittimi”, essendosi dedicati, fin dagli esordi con maestria e passione, all'esplorazione dell'opera di quest'ultimo tanto da diventarne in breve tempo una delle più apprezzate band tributo a livello europeo.
Un ‘rugginoso’ cammino che, tuttavia, ha visto i nostri, in seguito, svoltare per altri sentieri, pur viaggiando sempre in parallelo alle polverose strade battute dagli zoccoli del Bisonte e dei suoi Cavalli Pazzi, in cerca di una personale direzione musicale, culminata con la pubblicazione di due album di inediti, Move Along e Wild Dogs, salutati dalla critica come «i dischi più affascinanti in stile Americana mai prodotti da un gruppo italiano». Ed oggi, dopo un lungo iato discografico, durato quattro anni, la ‘ruggine’ bergamasca che nel frattempo, rimarcando ulteriormente le proprie affinità con quella younghiana, non si era per nulla assopita, torna ad intaccare con la propria ‘ossidante’ visione musicale, ma in modo del tutto inedito, pentagrammi altrui. Dalla Polvere E Dal Fuoco raccoglie infatti, per usare le parole degli stessi Rusties, nove “cover d'autore”, liberamente tradotte e riadattate in italiano da Marco Grompi, chitarrista, cantante e de facto mente, insieme all'amico Osvaldo Ardenghi, dietro al monicker Rusties, selezionate con cura, andando ad attingere al repertorio di artisti ai quali i nostri sono legati da un profondo rapporto tanto di ammirazione quanto di amicizia. Si spiega in tal modo una selezione alquanto variegata, a coprire un arco temporale piuttosto ampio, dalla fine degli anni Sessanta fino ai giorni nostri, passando, senza apparente soluzione di continuità dal già, ampiamente, frequentato songbook younghiano, per quello di un altro canadese doc, Bruce Cockburn, rendendo omaggio al compianto Warren Zevon, arrivando ad includere “nuovi” songwriter quali Chris Eckman e Robert Fisher. È il pregevole lavoro in fase di arrangiamento, operato dai Rusties medesimi, a legare brani sulla carta diversi tra loro, grazie ad un comune fil rouge, un impasto folk rock elettroacustico debitore tanto delle sonorità settantiane, a stelle e strisce, quanto della più pura tradizione cantautorale nostrana. Arrangiamenti che traggono ulteriore beneficio da una registrazione in presa diretta, avvenuta in quel di Grosseto, all'Ortostudio, sotto la supervisione attenta di Filippo Gatti, dalla quale si avverte lo sforzo collettivo di un quintetto forse mai così coeso e conscio dei propri mezzi espressivi. E se l'intrecciarsi delle corde delle due chitarre, acustica ed elettrica, affidate alle capaci mani dei succitati Grompi e Ardenghi, è da sempre uno dei tratti distintivi del "rusties sound", notevoli sono gli apporti strumentali delle tastiere di Massimo Piccinelli e del violino dell'ospite Jada Salem (loro vecchia conoscenza, avendo già preso parte alle sedute di registrazione di Move Along), ad arricchire armonicamente il preciso, costante pulsare di una sezione ritmica del tutto rinnovata, composta da Fulvio Monieri al basso e Filippo Acquaviva alla batteria, ma già dimostratasi perfettamente integrata nell'economia sonora collettiva. Ad emergere, in modo preponderante, è tuttavia la sensibilità narrativa di Grompi, autentico artigiano della parola, capace di uscire, più che, vincitore dall'ardua impresa di piegare all'italico idioma le liriche originarie. Se forse è scontato appurare come il quintetto si trovi perfettamente a proprio agio nel rivisitare e riadattare la, già familiare, opera del proprio padre putativo, con una grintosa Powderfinger, tramutatisi in Dalla Polvere E Dal Fuoco, il cui testo è un libero adattamento della, precedente, traduzione ad opera di Mimmo Locasciulli e Cereno Diotallevi (all'anagrafe Francesco De Gregori), e l'etereo incanto de La Signora, in origine The Old Laughing Lady, qui avvolta da una parsoniana aura cosmic country, è quando essi rivolgono la propria attenzione verso altri autori, che giungono le più inaspettate quanto gradite sorprese. A tal proposito come non menzionare una cockburniana Pacing The Cage dalla sommessa fragilità acustica, qui diventata Dentro La Gabbia, tra il metallico risuonare di un glockenspiel, e il flessuoso muoversi dell'archetto sul violino della Salem. Non manca tuttavia quella fisicità febbrile anch'essa caratterizzante, da sempre, l'operato rustisiano, e qui affiorante in modo deciso, nella furia elettrica di Se Solo Avessi Un Lanciarazzi (If I Had A Rocket Launcher), ad enfatizzare ulteriormente le originarie, rabbiose liriche poste su carta dalla penna del medesimo Cockburn. E se la gemma martyniana Solid Air (Aria Solida) viene qui riproposta in una lisergica, rallentata versione forse più vicina alla California dei Crazy Horse, che alla Scozia del suo autore, ad impressionare, per resa finale, è la riedizione di The Logical Song dei Supertramp, in una sussultante Canzone Logica sintomatica dell'onnivora fame musicale dei bergamaschi. Ottimo anche il trattamento riservato tanto a Ombre All'Orizzonte (Ghost Along The Borders), facente parte dell'ultimo, stupendo parto solista di Chris Eckman, Harney County, in una dimessa ballata dalla paradisiaca grana melodica, quanto a Le Intenzioni Di Harrison Hayes, la The Trials Of Harrison Hayes di fisheriana memoria, ideale anello di congiunzione tra l'alternative country dei Willard Grant Conspiracy e la pregnanza letteraria del cantautorato nostrano. Da brividi lungo la schiena è poi la conclusiva, elegiaca Tienimi Con Te, ovvero Keep Me In Your Heart, uno degli ultimi, strazianti brani incisi da Warren Zevon prima di dare l'addio a questo crudele mondo. Una riuscita scommessa quella effettuata dai Rusties con Dalla Polvere E Dal Fuoco, in un primo tentativo di riappacificazione lirica con l'italico idioma, perpetrato grazie all'aiuto di spartiti “amici” e che, visti i considerevoli risultati ottenuti, ci auguriamo sia solamente un preambolo ad un nuovo, autografo percorso autoriale in italiano.
«La ruggine non dorme mai»; potremmo partire da questo assunto younghiano per descrivere la rocambolesca parabola artistica dei Rusties. Un accostamento quello con il vecchio canadese non del tutto casuale visto che i bergamaschi possono esserne considerati, musicalmente, i “figli illegittimi”, essendosi dedicati, fin dagli esordi con maestria e passione, all'esplorazione dell'opera di quest'ultimo tanto da diventarne in breve tempo una delle più apprezzate band tributo a livello europeo.
Un ‘rugginoso’ cammino che, tuttavia, ha visto i nostri, in seguito, svoltare per altri sentieri, pur viaggiando sempre in parallelo alle polverose strade battute dagli zoccoli del Bisonte e dei suoi Cavalli Pazzi, in cerca di una personale direzione musicale, culminata con la pubblicazione di due album di inediti, Move Along e Wild Dogs, salutati dalla critica come «i dischi più affascinanti in stile Americana mai prodotti da un gruppo italiano». Ed oggi, dopo un lungo iato discografico, durato quattro anni, la ‘ruggine’ bergamasca che nel frattempo, rimarcando ulteriormente le proprie affinità con quella younghiana, non si era per nulla assopita, torna ad intaccare con la propria ‘ossidante’ visione musicale, ma in modo del tutto inedito, pentagrammi altrui. Dalla Polvere E Dal Fuoco raccoglie infatti, per usare le parole degli stessi Rusties, nove “cover d'autore”, liberamente tradotte e riadattate in italiano da Marco Grompi, chitarrista, cantante e de facto mente, insieme all'amico Osvaldo Ardenghi, dietro al monicker Rusties, selezionate con cura, andando ad attingere al repertorio di artisti ai quali i nostri sono legati da un profondo rapporto tanto di ammirazione quanto di amicizia. Si spiega in tal modo una selezione alquanto variegata, a coprire un arco temporale piuttosto ampio, dalla fine degli anni Sessanta fino ai giorni nostri, passando, senza apparente soluzione di continuità dal già, ampiamente, frequentato songbook younghiano, per quello di un altro canadese doc, Bruce Cockburn, rendendo omaggio al compianto Warren Zevon, arrivando ad includere “nuovi” songwriter quali Chris Eckman e Robert Fisher. È il pregevole lavoro in fase di arrangiamento, operato dai Rusties medesimi, a legare brani sulla carta diversi tra loro, grazie ad un comune fil rouge, un impasto folk rock elettroacustico debitore tanto delle sonorità settantiane, a stelle e strisce, quanto della più pura tradizione cantautorale nostrana. Arrangiamenti che traggono ulteriore beneficio da una registrazione in presa diretta, avvenuta in quel di Grosseto, all'Ortostudio, sotto la supervisione attenta di Filippo Gatti, dalla quale si avverte lo sforzo collettivo di un quintetto forse mai così coeso e conscio dei propri mezzi espressivi. E se l'intrecciarsi delle corde delle due chitarre, acustica ed elettrica, affidate alle capaci mani dei succitati Grompi e Ardenghi, è da sempre uno dei tratti distintivi del "rusties sound", notevoli sono gli apporti strumentali delle tastiere di Massimo Piccinelli e del violino dell'ospite Jada Salem (loro vecchia conoscenza, avendo già preso parte alle sedute di registrazione di Move Along), ad arricchire armonicamente il preciso, costante pulsare di una sezione ritmica del tutto rinnovata, composta da Fulvio Monieri al basso e Filippo Acquaviva alla batteria, ma già dimostratasi perfettamente integrata nell'economia sonora collettiva. Ad emergere, in modo preponderante, è tuttavia la sensibilità narrativa di Grompi, autentico artigiano della parola, capace di uscire, più che, vincitore dall'ardua impresa di piegare all'italico idioma le liriche originarie. Se forse è scontato appurare come il quintetto si trovi perfettamente a proprio agio nel rivisitare e riadattare la, già familiare, opera del proprio padre putativo, con una grintosa Powderfinger, tramutatisi in Dalla Polvere E Dal Fuoco, il cui testo è un libero adattamento della, precedente, traduzione ad opera di Mimmo Locasciulli e Cereno Diotallevi (all'anagrafe Francesco De Gregori), e l'etereo incanto de La Signora, in origine The Old Laughing Lady, qui avvolta da una parsoniana aura cosmic country, è quando essi rivolgono la propria attenzione verso altri autori, che giungono le più inaspettate quanto gradite sorprese. A tal proposito come non menzionare una cockburniana Pacing The Cage dalla sommessa fragilità acustica, qui diventata Dentro La Gabbia, tra il metallico risuonare di un glockenspiel, e il flessuoso muoversi dell'archetto sul violino della Salem. Non manca tuttavia quella fisicità febbrile anch'essa caratterizzante, da sempre, l'operato rustisiano, e qui affiorante in modo deciso, nella furia elettrica di Se Solo Avessi Un Lanciarazzi (If I Had A Rocket Launcher), ad enfatizzare ulteriormente le originarie, rabbiose liriche poste su carta dalla penna del medesimo Cockburn. E se la gemma martyniana Solid Air (Aria Solida) viene qui riproposta in una lisergica, rallentata versione forse più vicina alla California dei Crazy Horse, che alla Scozia del suo autore, ad impressionare, per resa finale, è la riedizione di The Logical Song dei Supertramp, in una sussultante Canzone Logica sintomatica dell'onnivora fame musicale dei bergamaschi. Ottimo anche il trattamento riservato tanto a Ombre All'Orizzonte (Ghost Along The Borders), facente parte dell'ultimo, stupendo parto solista di Chris Eckman, Harney County, in una dimessa ballata dalla paradisiaca grana melodica, quanto a Le Intenzioni Di Harrison Hayes, la The Trials Of Harrison Hayes di fisheriana memoria, ideale anello di congiunzione tra l'alternative country dei Willard Grant Conspiracy e la pregnanza letteraria del cantautorato nostrano. Da brividi lungo la schiena è poi la conclusiva, elegiaca Tienimi Con Te, ovvero Keep Me In Your Heart, uno degli ultimi, strazianti brani incisi da Warren Zevon prima di dare l'addio a questo crudele mondo. Una riuscita scommessa quella effettuata dai Rusties con Dalla Polvere E Dal Fuoco, in un primo tentativo di riappacificazione lirica con l'italico idioma, perpetrato grazie all'aiuto di spartiti “amici” e che, visti i considerevoli risultati ottenuti, ci auguriamo sia solamente un preambolo ad un nuovo, autografo percorso autoriale in italiano.
David Mayfield - Strangers
(Pubblicato su Rootshighway)
Con un dna musicale composto, in larga parte, da geni country ed old time, eredità dei propri genitori, David Mayfield, dopo aver contribuito alla realizzazione degli album solisti della sorella, Jessica Lea, e aver preso parte all'esperienza d'assieme, targata Cadillac Sky, si è infine, anch'egli, incamminato lungo un percorso a proprio nome, giunto oggi alla sua terza, solitaria tappa. Se con l'omonimo, notevole esordio, e con l'autoprodotto, successore Good Man Down, intestati sì entrambi alla ragione collettiva David Mayfield Parade, ma a tutti gli effetti suoi parti "autonomi", il nostro aveva saputo guadagnarsi il consenso della critica, con l'odierno Strangers, non solo replica a quanto di buono mostrato in precedenza, ma al contempo sembra, ancor più, ritagliarsi una propria oasi felice nell'affollato universo indie folk. A questo ha senza dubbio giovato l'accasarsi presso la Compass Records, meglio conosciuta quale "Nashville's hippest alternative label", e habitat sonoro ideale per lo sfaccettato songwriting del barbuto musicista originario di Kent, Ohio. Sarebbe infatti riduttivo, alla luce della cangiante policromia degli spartiti mayfieldiani, relegare quest'ultimo all'interno dei confini del suddetto indie folk, entro i quali egli certo si diverte a scorrazzare a più riprese, non precludendosi tuttavia estemporanee sortite in altri territori sonori, tanto arcaici quanto di più moderna fattura. Non deve stupire, pertanto, il trovarsi di fronte ad episodi sonori in apparenza diversi tra loro, frutto dello scrivere maturo di un songwriter ben conscio della molteplicità del proprio talento autoriale. A sostegno di tale tesi troviamo l'opener Caution, rimandante ai Decemberists invaghiti delle verdi brughiere irlandesi, o In Your Eyes, quasi un fiddle tune old time nel suo incipit per sola voce e violino, prima che l'ingresso di un'agile sezione ritmica infonda al tutto una più incalzante sfrontatezza country grass. E se l'influenza dell'amico Seth Avett, su consiglio del quale Mayfield ha iniziato a comporre, è quantomai palese in ballate di umbratile mestizia quali The One I Hate e la deliziosa My First Big Lie And How I Got Out Of It, quest'ultimo, e il di lui fratello, vengono nuovamente chiamati in causa nella sommessa dichiarazione d'intenti di una struggente The Man I'm Trying To Be. Notevoli sono, d'altra parte, brani ove ad rifulgere è, invece, il personale tocco della penna mayfieldiana, vedasi una Ohio (It's Fake) capace di coniugare trattenuta introspezione folkie ed urticanti, sintetiche trame moderniste, o la baraonda percussiva di una forsennata Rain On My Parade. Pertanto, se siete avvezzi alle sonorità poc'anzi descritte, Strangers è un album che non dovrebbe mancare nella vostra personale discografia, mentre, al contrario, se appartenete al novero di coloro che storcono il naso di fronte al movimento indie folk tutto, vi consiglio di lasciar da parte, per una volta, il vostro integralismo musicale e porvi, senza preconcetti, all'ascolto, in quanto si definirà pure, a mio avviso peccando sin troppo in modestia, un semplice intrattenitore David Mayfield, ma è altresì dotato di un songwriting dalla disarmante freschezza.
Con un dna musicale composto, in larga parte, da geni country ed old time, eredità dei propri genitori, David Mayfield, dopo aver contribuito alla realizzazione degli album solisti della sorella, Jessica Lea, e aver preso parte all'esperienza d'assieme, targata Cadillac Sky, si è infine, anch'egli, incamminato lungo un percorso a proprio nome, giunto oggi alla sua terza, solitaria tappa. Se con l'omonimo, notevole esordio, e con l'autoprodotto, successore Good Man Down, intestati sì entrambi alla ragione collettiva David Mayfield Parade, ma a tutti gli effetti suoi parti "autonomi", il nostro aveva saputo guadagnarsi il consenso della critica, con l'odierno Strangers, non solo replica a quanto di buono mostrato in precedenza, ma al contempo sembra, ancor più, ritagliarsi una propria oasi felice nell'affollato universo indie folk. A questo ha senza dubbio giovato l'accasarsi presso la Compass Records, meglio conosciuta quale "Nashville's hippest alternative label", e habitat sonoro ideale per lo sfaccettato songwriting del barbuto musicista originario di Kent, Ohio. Sarebbe infatti riduttivo, alla luce della cangiante policromia degli spartiti mayfieldiani, relegare quest'ultimo all'interno dei confini del suddetto indie folk, entro i quali egli certo si diverte a scorrazzare a più riprese, non precludendosi tuttavia estemporanee sortite in altri territori sonori, tanto arcaici quanto di più moderna fattura. Non deve stupire, pertanto, il trovarsi di fronte ad episodi sonori in apparenza diversi tra loro, frutto dello scrivere maturo di un songwriter ben conscio della molteplicità del proprio talento autoriale. A sostegno di tale tesi troviamo l'opener Caution, rimandante ai Decemberists invaghiti delle verdi brughiere irlandesi, o In Your Eyes, quasi un fiddle tune old time nel suo incipit per sola voce e violino, prima che l'ingresso di un'agile sezione ritmica infonda al tutto una più incalzante sfrontatezza country grass. E se l'influenza dell'amico Seth Avett, su consiglio del quale Mayfield ha iniziato a comporre, è quantomai palese in ballate di umbratile mestizia quali The One I Hate e la deliziosa My First Big Lie And How I Got Out Of It, quest'ultimo, e il di lui fratello, vengono nuovamente chiamati in causa nella sommessa dichiarazione d'intenti di una struggente The Man I'm Trying To Be. Notevoli sono, d'altra parte, brani ove ad rifulgere è, invece, il personale tocco della penna mayfieldiana, vedasi una Ohio (It's Fake) capace di coniugare trattenuta introspezione folkie ed urticanti, sintetiche trame moderniste, o la baraonda percussiva di una forsennata Rain On My Parade. Pertanto, se siete avvezzi alle sonorità poc'anzi descritte, Strangers è un album che non dovrebbe mancare nella vostra personale discografia, mentre, al contrario, se appartenete al novero di coloro che storcono il naso di fronte al movimento indie folk tutto, vi consiglio di lasciar da parte, per una volta, il vostro integralismo musicale e porvi, senza preconcetti, all'ascolto, in quanto si definirà pure, a mio avviso peccando sin troppo in modestia, un semplice intrattenitore David Mayfield, ma è altresì dotato di un songwriting dalla disarmante freschezza.
La Bestia Carenne - Catacatassc
(Pubblicato su Extra! Music Magazine)
Nella calura delle notti estive, ai fortunati abitanti delle più sperdute zone rurali, capita spesso di imbattersi, estasiati, nel baluginare intermittente delle lucciole. Nei bei tempi andati, un'usanza, in voga specie tra i bambini, era quella di rinchiudere questi piccoli insetti in angusti barattoli, per poterne ammirare appieno il luminoso splendore, e dove, annichilite da questa velata forma di sadismo infantile, esse trovavano, spesso e purtroppo, la morte. Una pratica alla quale pare essersi dedicata, con maggior fortuna e minor cattiveria, la Bestia Carenne, antropomorfa creatura musicale partorita dalle menti di quattro giovani ragazzi campani. L'immaginifica belva partenopea non solo è riuscita, infatti, a mantenere in vita le lucciole aggirantesi nella propria terra natia (catacatascc' in dialetto napoletano significa, per l'appunto lucciole) ma ha saputo mantenerne in vita le pulsanti luminescenze, irradiando grazie ad esse i propri spartiti, già abilmente assiepati di parole e note dall'egregio lavorio, tanto in fase di scrittura quanto di arrangiamento, dei suoi quattro “domatori”. Un ventaglio sonoro ampio e variegato, in un continuo, animalesco dimenarsi tra la ricercatezza testuale del cantautorato nostrano e l'arrembante vitalità ritmica del miglior folk tricolore, per poi imbastardire il tutto con zingaresche arie tzigane, elettriche lacerazioni bluesy e squarci di bucolica ariosità country. L'intrecciarsi elettroacustico, tra le più disparate corde, è senza dubbio uno dei tratti peculiari del modus operandi compositivo dei nostri, come ben si evince dalla, strumentale, title track posta in apertura, o in Il Sapore, dall'ebbro incedere caposseliano, nonché pregno di rimandi alla tradizione melodica partenopea. Una napoletanità mai mascherata, anzi orgogliosamente enfatizzata, tanto, per l'appunto, a livello armonico, quanto lirico, con un cantato, in italiano, ma dalla marcata inflessione dialettale, a rinsaldare, ulteriormente, il legame con l'amata terra natia. E se una delle possenti zampe della Bestia Carenne è saldamente affondata proprio nel suolo campano, l'altra pare invece, dopo una titanica falcata, essersi infine poggiata sul suolo americano, esplorandone i più rurali recessi sonori come in una Transkei, country fino al midollo, impreziosita dai vellutati ricami di lap steel e violino, o nella conclusiva Cadillac, sporcata, invece, dalla polverosa malia del border messicano, passando per il livido sussurrare di Uno Studente e Vysotskji, notevole esempio della maturità autoriale dei nostri, a ricordare il De Gregori dalla più cieca infatuazione dylaniana. Al succitato Capossela, e alle sue stralunate digressioni alcoliche si rifà, nuovamente, Billy Il Mezzo Marinaio, sghembo valzer d'antan, dal retrogusto dixieland, mentre le notturne suggestioni latine di Le Cose Che Desideri, con il mantice della fisarmonica a regalare barlumi di pura poesia, sembrano voler ricalcare, al contrario, l'animo più “classicamente” cantautorale del musicista originario di Hannover. Un primo “ruggito” forte e sicuro, quindi, quello della Bestia Carenne, foraggiata e cresciuta con amore e dedizione ed oggi capace di dar vita ad un lavoro di affascinante luminosità, tra fulgidi momenti di debordante impulsività folk ed ombrosi episodi di più trattenuto raccoglimento, simile proprio a quella delle lucciole alle quali si è ispirata.
Nella calura delle notti estive, ai fortunati abitanti delle più sperdute zone rurali, capita spesso di imbattersi, estasiati, nel baluginare intermittente delle lucciole. Nei bei tempi andati, un'usanza, in voga specie tra i bambini, era quella di rinchiudere questi piccoli insetti in angusti barattoli, per poterne ammirare appieno il luminoso splendore, e dove, annichilite da questa velata forma di sadismo infantile, esse trovavano, spesso e purtroppo, la morte. Una pratica alla quale pare essersi dedicata, con maggior fortuna e minor cattiveria, la Bestia Carenne, antropomorfa creatura musicale partorita dalle menti di quattro giovani ragazzi campani. L'immaginifica belva partenopea non solo è riuscita, infatti, a mantenere in vita le lucciole aggirantesi nella propria terra natia (catacatascc' in dialetto napoletano significa, per l'appunto lucciole) ma ha saputo mantenerne in vita le pulsanti luminescenze, irradiando grazie ad esse i propri spartiti, già abilmente assiepati di parole e note dall'egregio lavorio, tanto in fase di scrittura quanto di arrangiamento, dei suoi quattro “domatori”. Un ventaglio sonoro ampio e variegato, in un continuo, animalesco dimenarsi tra la ricercatezza testuale del cantautorato nostrano e l'arrembante vitalità ritmica del miglior folk tricolore, per poi imbastardire il tutto con zingaresche arie tzigane, elettriche lacerazioni bluesy e squarci di bucolica ariosità country. L'intrecciarsi elettroacustico, tra le più disparate corde, è senza dubbio uno dei tratti peculiari del modus operandi compositivo dei nostri, come ben si evince dalla, strumentale, title track posta in apertura, o in Il Sapore, dall'ebbro incedere caposseliano, nonché pregno di rimandi alla tradizione melodica partenopea. Una napoletanità mai mascherata, anzi orgogliosamente enfatizzata, tanto, per l'appunto, a livello armonico, quanto lirico, con un cantato, in italiano, ma dalla marcata inflessione dialettale, a rinsaldare, ulteriormente, il legame con l'amata terra natia. E se una delle possenti zampe della Bestia Carenne è saldamente affondata proprio nel suolo campano, l'altra pare invece, dopo una titanica falcata, essersi infine poggiata sul suolo americano, esplorandone i più rurali recessi sonori come in una Transkei, country fino al midollo, impreziosita dai vellutati ricami di lap steel e violino, o nella conclusiva Cadillac, sporcata, invece, dalla polverosa malia del border messicano, passando per il livido sussurrare di Uno Studente e Vysotskji, notevole esempio della maturità autoriale dei nostri, a ricordare il De Gregori dalla più cieca infatuazione dylaniana. Al succitato Capossela, e alle sue stralunate digressioni alcoliche si rifà, nuovamente, Billy Il Mezzo Marinaio, sghembo valzer d'antan, dal retrogusto dixieland, mentre le notturne suggestioni latine di Le Cose Che Desideri, con il mantice della fisarmonica a regalare barlumi di pura poesia, sembrano voler ricalcare, al contrario, l'animo più “classicamente” cantautorale del musicista originario di Hannover. Un primo “ruggito” forte e sicuro, quindi, quello della Bestia Carenne, foraggiata e cresciuta con amore e dedizione ed oggi capace di dar vita ad un lavoro di affascinante luminosità, tra fulgidi momenti di debordante impulsività folk ed ombrosi episodi di più trattenuto raccoglimento, simile proprio a quella delle lucciole alle quali si è ispirata.
domenica 21 dicembre 2014
Melissa Ruth and the Likely Stories - Riding Mercury
(Pubblicato su Rootshighway)
Diciassette microfoni posti davanti alla batteria, due diversi bassisti, il proprio marito alla sei corde elettrica, una bottiglia di whiskey e l'amata Guild Guitar del 1958 al suo fianco; tanto è servito a Melissa Ruth per "catturare" su nastro l'essenza primigenia dei brani andati infine a comporre Riding Mercury, sua terza prova in studio. Un lavoro che ricalca quanto di buono mostrato dal precedente Ain't No Whiskey, deciso scarto di lato stilistico rispetto al debutto Underwater And Other Places, ben più ancorato ad acustiche trame country folk. Per il suo nuovo parto artistico la Ruth opta, infatti, come già avvenuto nella precedente release per sonorità ancor più pregne d'elettricità, tra cupa tribolazione blues e notturna confessionalità jazz. Accompagnata anche in questo frangente dalle "Storie Piacevoli" ovvero un combo a conduzione "familiare" nel quale figurano il già citato marito, Johnny Leal, alla chitarra, e il di lui fratello Jimmy alla batteria, ai quali si aggiungono in questo frangente, alternandosi al basso, Rick DeVol e Scoop McGuire, la Ruth, oltre a dedicarsi a un, più che notevole, lavorio di songwriting, e a padroneggiare chitarra elettrica, banjo e tastiere, si fa qui carico anche del ruolo di produttrice, in partnership con Don Ross. Registrati in analogico, con tutti i musicisti chiusi in un'unica stanza, i brani qui acclusi mantengono, in tal modo, intatta la propria forza lirica, ulteriormente accentuata dalla tormentata voce della Ruth, intrisa della rabbia e della disperazione di un periodo della propria vita non facile, segnato da perdite familiari e da profondi dolori privati. Una vocalità, la sua, accostabile tanto a quella, meno roca, di una giovane Lucinda Williams, quanto ad una Ani DiFranco più introspettiva e meno barricadera, in grado di emergere, in tutta la propria, calda espressività, in brani dalla maggior dilatazione armonica, come nel pervasivo slow blues Summer Nights In New Orleans, nel respiro soul di Your Love, impreziosita dai limpidi fraseggi della chitarra di Leal, o nel crucciarsi amoroso di una stentorea, supplichevole Who's Your Lover?. Non mancano tuttavia episodi di più marcata dinamicità, come la sfuriata bluesy dell'opener What I Got, che non avrebbe sfigurato sull'ultimo, stupendo, disco della stessa Williams, o il puntato shuffle A Letter, fino alla ritmata sarabanda, con la comparsa del trombone di Talon Nansel, di High Brow Blues, dove più evidenti sono, a livello vocale, le assonanze con la DiFranco. Il rallentato, drammatico svolgersi della lunga title track, posta in chiusura, è invece l'occasione, per la Ruth, di profondersi in un'ultima, straziante prova vocale. Giunta al tanto ambito, quanto rischioso, terzo album, Melissa Ruth mostra un'invidiabile maturità stilistica ed interpretativa, tale da permetterle di fuoriuscire dal "popolato" gruppo delle "promesse" ed entrare a far parte del, all'incontrario, ristretto novero delle più solide, nuove realtà del songwriting americano.
Diciassette microfoni posti davanti alla batteria, due diversi bassisti, il proprio marito alla sei corde elettrica, una bottiglia di whiskey e l'amata Guild Guitar del 1958 al suo fianco; tanto è servito a Melissa Ruth per "catturare" su nastro l'essenza primigenia dei brani andati infine a comporre Riding Mercury, sua terza prova in studio. Un lavoro che ricalca quanto di buono mostrato dal precedente Ain't No Whiskey, deciso scarto di lato stilistico rispetto al debutto Underwater And Other Places, ben più ancorato ad acustiche trame country folk. Per il suo nuovo parto artistico la Ruth opta, infatti, come già avvenuto nella precedente release per sonorità ancor più pregne d'elettricità, tra cupa tribolazione blues e notturna confessionalità jazz. Accompagnata anche in questo frangente dalle "Storie Piacevoli" ovvero un combo a conduzione "familiare" nel quale figurano il già citato marito, Johnny Leal, alla chitarra, e il di lui fratello Jimmy alla batteria, ai quali si aggiungono in questo frangente, alternandosi al basso, Rick DeVol e Scoop McGuire, la Ruth, oltre a dedicarsi a un, più che notevole, lavorio di songwriting, e a padroneggiare chitarra elettrica, banjo e tastiere, si fa qui carico anche del ruolo di produttrice, in partnership con Don Ross. Registrati in analogico, con tutti i musicisti chiusi in un'unica stanza, i brani qui acclusi mantengono, in tal modo, intatta la propria forza lirica, ulteriormente accentuata dalla tormentata voce della Ruth, intrisa della rabbia e della disperazione di un periodo della propria vita non facile, segnato da perdite familiari e da profondi dolori privati. Una vocalità, la sua, accostabile tanto a quella, meno roca, di una giovane Lucinda Williams, quanto ad una Ani DiFranco più introspettiva e meno barricadera, in grado di emergere, in tutta la propria, calda espressività, in brani dalla maggior dilatazione armonica, come nel pervasivo slow blues Summer Nights In New Orleans, nel respiro soul di Your Love, impreziosita dai limpidi fraseggi della chitarra di Leal, o nel crucciarsi amoroso di una stentorea, supplichevole Who's Your Lover?. Non mancano tuttavia episodi di più marcata dinamicità, come la sfuriata bluesy dell'opener What I Got, che non avrebbe sfigurato sull'ultimo, stupendo, disco della stessa Williams, o il puntato shuffle A Letter, fino alla ritmata sarabanda, con la comparsa del trombone di Talon Nansel, di High Brow Blues, dove più evidenti sono, a livello vocale, le assonanze con la DiFranco. Il rallentato, drammatico svolgersi della lunga title track, posta in chiusura, è invece l'occasione, per la Ruth, di profondersi in un'ultima, straziante prova vocale. Giunta al tanto ambito, quanto rischioso, terzo album, Melissa Ruth mostra un'invidiabile maturità stilistica ed interpretativa, tale da permetterle di fuoriuscire dal "popolato" gruppo delle "promesse" ed entrare a far parte del, all'incontrario, ristretto novero delle più solide, nuove realtà del songwriting americano.
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